All'età di 18 anni ero un
contadino altoatesino che viveva in un maso. Avevamo mucche, cavalli e animali
da cortile e qualche volta avevo visto passare i militari con i muli e accamparsi
ordinatamente vicino a casa mia.
Iniziai il periodo militare nella caserma di Merano, per
poi spostarmi a Brunico e infine a Monguelfo. All'arrivo in quest'ultima ero
radiofonista; al tempo però non parlavo
italiano e finii perciò a fare la guardia o a lavare pentole. Un giorno mi
capitò di doverne lavare una veramente molto grande e, vista la mia statura
limitata, pensai bene di farlo mettendomici all'interno. In quel momento passò
di lì il colonnello e, dopo avermi osservato nel pentolone, mi disse in
tedesco: "Lei è troppo piccolo per questo lavoro, cosa le piacerebbe
fare?" - "Vorrei andare con i muli" - risposi. Mi chiese dunque
se a casa avevo cavalli: alla mia risposta affermativa mi disse che dal giorno
seguente avrei prestato servizio alla salmeria. E fu così che, senza aver
seguito il corso di preparazione come di procedura, mi ritrovai tra i muli.
La vita in caserma ruotava intorno ai muli: ogni mattina,
mentre alcuni si occupavano del brusca e striglia, altri
pulivano la salmeria. Venivano dunque preparati fieno e avena, abbeverati gli animali e lasciati
mangiare fino alle 16.30.
A quell'ora un'altra abbeverata e poi di nuovo legati al
palo per mangiare. La sera venivano messi sotto la tettoia fino alla mattina dopo. In
ogni momento del giorno e della notte i muli erano sorvegliati da
due soldati, mentre altri due erano incaricati
di controllare e riparare i finimenti.
Ricordo che quando portavamo i
muli a bere, invece di prenderli uno a uno, ci piaceva lasciarli tutti liberi e vederli andare da soli all'acqua
(pensavamo che un po'
di libertà avrebbe fatto loro piacere): al ritorno li prendevamo, ma non li legavamo nello stesso ordine
come avremmo dovuto...
I nostri muli non erano molto grandi, perché dovevano portare solo i mortai di grandezza normale: i
muli di Dobbìaco erano
invece molto grandi perché dovevano
portare i cannoni.
Un mulo aveva il valore di tre alpini: proprio a Dobbiaco, mi raccontò un amico,
era successo che un soldato aveva
fatto del male a un mulo. Da quel momento, i ragazzi in punizione dovevano pulire le stalle senza usare la forca:
tutto doveva essere
fatto a mano.
In camerata, noi dei muli, eravamo con gli autisti: questi
ci rimproveravano di puzzare da cavallo e perciò ci mandavano sotto la doccia
vestiti.
Un giorno arrivò il nuovo "sten" (sottotenente) che a noi sembrava un
tipo un po' strano. Al momento di preparare i muli, ci chiese se tutto era
pronto e in ordine: rispondemmo di si, come sempre. Aprì dunque il quaderno
dove erano segnati i numeri che ogni mulo aveva sullo zoccolo con a fianco il
carico assegnato allo stesso e ci ordinò di
fare secondo quanto era scritto. Ma fino a quel momento i muli erano
stati bardati secondo quanto ognuno di loro riusciva meglio a portare e questo
non coincideva con quanto stava scritto nel quaderno. Provammo a dirglielo ma
lui non ne volle sapere.
Topina di
solito portava fieno, ma il nuovo
ufficiale ordinò di caricarle la
cucina: dopo i primi passi, al sentire il rumore dei tegami, un'orecchia avanti
e una indietro e tutto finì per terra.
Belinda
non veniva mai bardata, ma il sottotenente ordinò di metterle il basto. Appena il basto le toccava la schiena, lei
iniziava a sferrare calci e questo finì per terra diverse volte prima che
riuscissimo a tirare il sottopancia. Alla fine legammo un filo di ferro allo
stesso e da circa due metri di distanza riuscimmo a farlo arrivare all'altezza
della fìbbia e poi a fissarlo. Ci impiegammo due ore ad arrivare a questo
punto, e ora restava ancora il sottocoda. Risolvemmo l'ennesimo problema
portando Belinda con i posteriori addosso ad un muro; mentre i più forti la
tenevano davanti, io, che come ho detto ero piuttosto piccolo, le fissai il
sottocoda da sopra il muro, mentre la poveretta sferrava calci allo stesso.
Riuscimmo nell'impresa, ma fortunatamente il sten si rese conto che era meglio
non riprovarci più.
Sindaco era un furbo. Era il mulo più grande della Val Pusteria. Si
lasciava bardare tranquillamente ma poi, durante la marcia, aspettava l'arrivo
di una siepe o di rovi attorcigliati per tuffarcisi dentro e trovarvi un comodo
riparo: di lì non si riusciva più a tirarlo fuori. Questa volta, per fortuna,
il sottotenente credette alle nostre parole senza dover vedere con i propri
occhi. Agli altri muli, per
fortuna, le nuove mansioni non erano dispiaciute.
Anche in caserma le mule vanno in calore: pertanto, per
ovviare a inevitabili problemi, i maschi più irrequieti venivano tenuti distanti da esse. Mi capitò di essere
da solo di guardia ai muli; mi sembrò che uno di essi mi chiedesse di lasciarlo
raggiungere una delle mule poco
distanti da lui e così pensai di lasciarlo andare, il poveraccio. Proprio in quel
momento passò di lì il capitano che osservò la scena e passò oltre. Sapevo che
mi avrebbe assegnato una punizione. All'adunata serale, dopo avermi invitato a
fare un passo avanti, l'ufficiale mi disse: "Alpino ES, tu sei un bravo
alpino e da oggi sarai caporale". Invece di una punizione, quella mia
iniziativa mi regalò i gradi di caporale.
Alla fine della naja sapevamo che
l'esercito non voleva più utilizzare i muli; alcuni di noi ne volevano
comperare alcuni, ma non ce li hanno venduti. Essi erano proprietà dello stato
e vennero usati ancora per 2-3 anni.
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