SOMMARIO

Anno V
Numero 3
 Novembre 2013

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ARCHIVIO

 

 

 

 

La mia naja nelle truppe alpine
giugno 1984 - maggio 1985 di cui 7-8 mesi con i muli

di  Hube Schrofenegger

All'età di 18 anni ero un contadino altoatesino che viveva in un maso. Avevamo mucche, cavalli e animali da cortile e qualche volta avevo visto passare i militari con i muli e accamparsi ordinatamente vicino a casa mia.

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Iniziai il periodo militare nella caserma di Merano, per poi spostarmi a Brunico e infine a Monguelfo. All'arrivo in quest'ultima ero radiofonista; al tempo però non parlavo italiano e finii perciò a fare la guardia o a lavare pentole. Un giorno mi capitò di doverne lavare una veramente molto grande e, vista la mia statura limitata, pensai bene di farlo mettendomici all'interno. In quel momento passò di lì il colonnello e, dopo avermi osservato nel pentolone, mi disse in tedesco: "Lei è troppo piccolo per questo lavoro, cosa le piacerebbe fare?" - "Vorrei andare con i muli" - risposi. Mi chiese dunque se a casa avevo cavalli: alla mia risposta affermativa mi disse che dal giorno seguente avrei prestato servizio alla salmeria. E fu così che, senza aver seguito il corso di preparazione come di procedura, mi ritrovai tra i muli.

La vita in caserma ruotava intorno ai muli: ogni mattina, mentre alcuni si occupavano del brusca e striglia, altri pulivano la salmeria. Venivano dunque preparati fieno e avena, abbeverati gli animali e lasciati mangiare fino alle 16.30.

A quell'ora un'altra abbeverata e poi di nuovo legati al palo per mangiare. La sera venivano messi sotto la tettoia fino alla mattina dopo. In ogni momento del giorno e della notte i muli erano sorvegliati da due soldati, mentre altri due erano incaricati di controllare e riparare i finimenti.

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Ricordo che quando portavamo i muli a bere, invece di prenderli uno a uno, ci piaceva lasciarli tutti liberi e vederli andare da soli all'acqua (pensavamo che un po' di libertà avrebbe fatto loro piacere): al ritorno li prendevamo, ma non li legavamo nello stesso ordine come avremmo dovuto...

I nostri muli non erano molto grandi, perché dovevano portare solo i mortai di grandezza  normale: i muli di Dobbìaco  erano  invece  molto  grandi perché dovevano portare i cannoni.

Un mulo aveva il valore di tre alpini: proprio a Dobbiaco, mi raccontò un amico, era successo che un soldato aveva fatto del male a un mulo. Da quel momento, i ragazzi in punizione dovevano pulire le stalle senza usare la forca: tutto doveva essere fatto a mano.

In camerata, noi dei muli, eravamo con gli autisti: questi ci rimproveravano di puzzare da cavallo e perciò ci mandavano sotto la doccia vestiti.

Un giorno arrivò il nuovo "sten" (sottotenente) che a noi sembrava un tipo un po' strano. Al momento di preparare i muli, ci chiese se tutto era pronto e in ordine: rispondemmo di si, come sempre. Aprì dunque il quaderno dove erano segnati i numeri che ogni mulo aveva sullo zoccolo con a fianco il carico assegnato allo stesso e ci ordinò di fare secondo quanto era scritto. Ma fino a quel momento i muli erano stati bardati secondo quanto ognuno di loro riusciva meglio a portare e questo non coincideva con quanto stava scritto nel quaderno. Provammo a dirglielo ma lui non ne volle sapere.

Topina di solito portava fieno, ma il nuovo ufficiale ordinò di caricarle la cucina: dopo i primi passi, al sentire il rumore dei tegami, un'orecchia avanti e una indietro e tutto finì per terra.
Belinda non veniva mai bardata, ma il sottotenente ordinò di metterle il basto. Appena il basto le toccava la schiena, lei iniziava a sferrare calci e questo finì per terra diverse volte prima che riuscissimo a tirare il sottopancia. Alla fine legammo un filo di ferro allo stesso e da circa due metri di distanza riuscimmo a farlo arrivare all'altezza della fìbbia e poi a fissarlo. Ci impiegammo due ore ad arrivare a questo punto, e ora restava ancora il sottocoda. Risolvemmo l'ennesimo problema portando Belinda con i posteriori addosso ad un muro; mentre i più forti la tenevano davanti, io, che come ho detto ero piuttosto piccolo, le fissai il sottocoda da sopra il muro, mentre la poveretta sferrava calci allo stesso. Riuscimmo nell'impresa, ma fortunatamente il sten si rese conto che era meglio non riprovarci più.

Sindaco era un furbo. Era il mulo più grande della Val Pusteria. Si lasciava bardare tranquillamente ma poi, durante la marcia, aspettava l'arrivo di una siepe o di rovi attorcigliati per tuffarcisi dentro e trovarvi un comodo riparo: di lì non si riusciva più a tirarlo fuori. Questa volta, per fortuna, il sottotenente credette alle nostre parole senza dover vedere con i propri occhi. Agli altri muli, per fortuna, le nuove mansioni non erano dispiaciute.

Anche in caserma le mule vanno in calore: pertanto, per ovviare a inevitabili problemi, i maschi più irrequieti venivano tenuti distanti da esse. Mi capitò di essere da solo di guardia ai muli; mi sembrò che uno di essi mi chiedesse di lasciarlo raggiungere una delle mule poco distanti da lui e così pensai di lasciarlo andare, il poveraccio. Proprio in quel momento passò di lì il capitano che osservò la scena e passò oltre. Sapevo che mi avrebbe assegnato una punizione. All'adunata serale, dopo avermi invitato a fare un passo avanti, l'ufficiale mi disse: "Alpino ES, tu sei un bravo alpino e da oggi sarai caporale". Invece di una punizione, quella mia iniziativa mi regalò i gradi di caporale.

Alla fine della naja sapevamo che l'esercito non voleva più utilizzare i muli; alcuni di noi ne volevano comperare alcuni, ma non ce li hanno venduti. Essi erano proprietà dello stato e vennero usati ancora per 2-3 anni.