SOMMARIO

Anno VI
Numero 1
Marzo 2014

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ARCHIVIO

 

 

 

 

La ribellione e i suoi costi
di Flavia Negro
Una ribellione del 1334 e i suoi costi

Uno dei monologhi più esilaranti di Dario Fo è quello intitolato "Il tumulto di Bologna", altrimenti noto come "La guerra della merda". Come in molti dei suoi lavori l'attore prende spunto da un episodio storico effettivamente avvenuto: la ribellione del 1334 con cui i bolognesi, usando come arma principale quella che dà il titolo al monologo, riuscirono a mettere in fuga le truppe del papa e a liberare la loro città. Prima di fuggire a gambe levate il cardinale Bertrando del Poggetto e i suoi uomini, asserragliati dentro al castello di Porta Galliera, dovettero però sopportare per quindici giorni i lazzi dei bolognesi, che facevano a gara per coprire di ridicolo i nemici: e così, come racconta una cronaca contemporanea, mentre si riempivano le catapulte di escrementi per gettarli dentro le mura in testa ai papalini, "tutto lo puopolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania". Le più esagitate erano le donne, e in particolare "le peccatrice", come dice il nostro cronista, cioè le prostitute. Queste ultime, che dato il mestiere professato non avevano tanto da perdere in fatto di reputazione, non si limitavano a "fare le ficora", ovvero a rivolgere ai nemici il più comune e volgare gesto d'insulto che consisteva nel mettere il pollice fra indice e medio (grosso modo la versione medievale del nostro "dito medio"), ma si alzavano le vesti sul didietro ("bene se aizavano li panni dereto") e "mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine", cioè offrivano agli astanti un'irridente parellelo fra ciò che stava sotto i vestiti e i testi di diritto canonico - le Decretali e le Clementine per l'appunto - che il cardinale, in quanto esponente delle alte gerarchie ecclesiastiche oltre che capo delle truppe pontificie, doveva conoscere assai bene.
Come tutte le guerre anche questa, una volta finita, lasciò il posto ai diplomatici, agli avvocati e ai giuristi: a tutta quella schiera di uomini che certamente non avrebbero fatto una gran figura sul campo di battaglia, ma che costituivano per le sorti di ogni potere un esercito altrettanto decisivo in tempo di pace, quando si trattava di combattere non più con la spada ma con la penna e i codici del diritto alla mano. Così venne il tempo in cui ai bolognesi fu presentato il conto del loro operato, con tanto di interessi per le ingiurie e le beffe rivolte ai soldati della chiesa. Il papa emanò una bolla con un titolo inequivocabile - Processo contro i bolognesi - e nel 1347 fece recapitare a Bologna un documento che conteneva l'inventario di tutti i beni che il cardinale Bertrando e le sue truppe avevano perso nella fuga precipitosa dal castello, con l'evidente proposito di farsi rimborsare l'equivalente del loro valore in denaro sonante. Scorrendo la lunga pergamena - che misura 80 cm di larghezza per quasi due metri di lunghezza - incontriamo la descrizione particolareggiata di codici, argenterie, preziosi, bacili, mobilia, abiti di lusso, armi e armature e, ovviamente, di cavalli, ben centododici gli esemplari citati nel documento. Abbiamo così non solo un'esauriente rassegna di quale fosse, in fatto di cavalcature, il seguito standard di un uomo d'arme alla metà del Trecento, ma anche un campionario del loro prezzo. Per fare un esempio il vescovo di Mirepoix Pietro di Piret dichiara d'aver perso un grande cavallo morello ("unum magnum equum maurelum") del prezzo di 200 fiorini, un altro cavallo "grisetum" del prezzo di 125 fiorini, un palafreno grosso di 100 fiorini, due destrieri alti del valore di 100 fiorini e infine 4 cavalli "pro saumariis", cioè da soma, sempre del valore di 100 fiorini. Il vescovo di Bologna Bertrando Tessendari ha perso due cavalli "grandi" ("duos equos magnos"), un cavallo "bassus" del valore di 40 fiorni, un morello del valore di 150 fiorini e due "curserios bassos" pari a 200 fiorini. Già da questi pochi esempi è evidente l'estrema disparità di prezzi fra esemplari appartenenti allo stesso individuo, il che si spiega banalmente con la varietà di usi cui erano destinati: il cavallo che l'uomo d'arme usava in battaglia, e dal quale dipendeva la sua vita, doveva avere qualità assai diverse da quello che serviva per portargli i bagagli durante il viaggio. La differenza di valore fra i due animali è, in proporzione, quella che passa tra una Panda e una Ferrari: cosi Oliverio Berardi dichiara fra le sue perdite 9 cavalli che stima complessivamente 40 fiorini, ma il "suo" cavallo personale ("equum pro persona sua"), di fiorini ne vale da solo 150.
Può essere interessante, per comprendere meglio la scala di valori coperta dai cavalli, fare un parallelo con i prezzi degli altri beni censiti nel documento. Scorrendo le varie voci vien da dire che per i nobili prelati che costituivano l'esercito pontificio il cavallo non rappresentava certo il bene di maggior valore. I duecento fiorini che il già citato vescovo di Mirepoix dichiara per la perdita del suo morello, scompaiono a fronte delle cifre che accompagnano l'elenco dei suoi gioielli: 200 fiorini - lo stesso prezzo del cavallo - sono dichiarati per un anello d'oro "cum uno robino et aliis lapidibus preciosis", mentre una croce d'oro piena di pietre prezione (cum multis lapidibus preciosissimis) di fiorini ne vale addirittura 300. I paramenti completi da guerra per un cavallo vengono generalmente valutati sui 20 fiorini, ma in alcuni casi possono arrivare a cifre fino a cinque volte più elevate. Anche fra le selle si riscontra un'analoga varietà di prezzi: possono andare da 3 fiorini per una sella normale ai 10 per una "sellam magnam", mentre Giacomo da Vicenza, che di mestiere faceva il sellaio, dichiara d'aver perso una "sellam militarem" del valore di 36 lire bolognesi (grosso modo equivalenti a 20 fiorini). Nel Trecento, con la stampa ancora di là da venire, il costo dei libri è molto elevato, e in alcuni casi del tutto paragonabile a quello di un cavallo da guerra: così per la perdita di un esemplare delle Clementine - l'opera svillaneggiata dalle prostitute bolognesi - viene indicata la cifra di 60 fiorini, mentre i tomi del Corpus Juris Civilis vengono stimati ben 200 fiorini. Teniamo conto che una casa nel centro di Bologna - quella persa da un tale nome Lorius, di mestiere cuoco -, venne valutata poco più della metà, 225 lire bolognesi.
Ad onta dell'impegno profuso dai delegati papali nella redazione del lungo inventario la vicenda si risolse tuttavia a pieno vantaggio dei bolognesi. Non per niente a Bologna aveva sede una delle più antiche università italiane, patria di insigni giuristi e dei maggiori esperti di diritto: gli avvocati del comune tanto fecero che l'esorbitante somma richiesta dal papa per il risarcimento - oltre 20.000 fiorini - venne ridotta a una cifra insignificante e per giunta il pagamento dilazionato in tre comode rate.
Un ultimo cenno a proposito di questo interessante documento riguarda un'interessante assenza, quella delle cavalle. Nella lista, che censisce i beni più disparati ma tutti appartenenti a uomini d'arme, c'è poco spazio per loro. I pochi esemplari censiti si contano sulle dita di una mano e con un prezzo decisamente basso: Raimondo de Molendino dichiara una cavalla coi suoi puledri ("unam cavallam cum aliis animalibus ab ea descendentibus") del valore complessivo di 50 lire bolognesi (all'incirca 28 fiorini), mentre Ugo di Monteacuto enumera ben cinque cavalle e quattro ronzini, ma il valore dei nove animali è inferiore ai 70 fiorini. La differenza di valore fra maschi e femmine è una costante di tutti i secoli medievali, e infatti la si riscontra già nelle raccolte di leggi altomedievali dei popoli barbari. Presso i Burgundi e gli Alamanni il risarcimento in caso di furto prevedeva per lo stallone un compenso dalle tre alle quattro volte superiore rispetto alle femmine (il cui valore saliva - e in modo considerevole - solo nel caso delle fattrici), e la stessa predilizione si riscontra, vari secoli dopo, nelle regole che sovrintendevano il reclutamento delle compagnie di mercenari. Nel 1390 la compagnia del condottiero Giovanni Acuto prevedeva che ogni lancia (l'unità di misura della compagnia) fosse composta da "tre huomini e tre cavalli […] e non femine".
Il generale predominio del cavallo maschio nel mestiere della guerra ha, a quanto pare, una sola eccezione: i berrovieri. Questi cavalieri, solitamente di bassa estrazione sociale e con equipaggiamento più essenziale rispetto ai milites, si diffondono all'inizio XIII secolo in Lombardia e in Emilia e risultano montare di preferenza "iumenta", termine con il quale nel latino medievale si indicano le cavalle. Poco adatti ad essere utilizzati nelle cariche a lancia abbassata, dove la potenza e il peso stesso dell'animale giocavano un ruolo fondamentale, i berrovieri potevano però agire in modo efficace nelle attività di ricognizione o a carattere esplorativo, e ancora negli agguati, nelle razzie e in generale in tutte le occasioni in cui a determinare il successo dell'impresa erano, più che la forza, la rapidità dell'azione e il fattore sorpresa. I berrovieri erano tuttavia considerati cavalieri di serie B, mercenari che - dicono le fonti dell'epoca - si impegnavano per contratto a combattere "ad eorum risicum et fortunam", con l'unica prospettiva di fare un buon bottino tenendosi "omnes robas quas poterunt auferre inimicis": si capisce quindi che non trovino molto spazio nelle cronache medievali, che quando ne parlano è per lo più per sottolinearne le malefatte, oppure l'inesperienza e la stupidità. E' questo il caso di un berroviere, rimasto non a caso anonimo, citato nella cronaca duecentesca di Rolandino da Padova. Narra quest'ultimo che un giorno di settembre del 1256 il nostro fu incaricato dal suo comandante, il noto condottiero Ezzelino da Romano, di entrare nel fiume Bacchiglione per cercare un guado adatto al passaggio delle truppe. Il povero berroviere, uno "stultus" dice impietosamente il cronista, entrò in acqua con tutto l'equipaggiamento compresa la pesante pancera di ferro, così che quando la sua cavalla mise lo zoccolo "in profundum gurgitem", l'uomo fu trascinato a fondo dal peso dell'armatura e solo la cavalla, riemersa dall'acqua, riuscì faticosamente a giungere "ad ripam alteram". Altro non si sa del nostro berroviere, perché l'autore passa subito dopo a raccontare delle terribili imprese di Ezzelino da Romano, il «crudelissimus tyrannus» che col suo esercito mise a ferro e fuoco molte città venete e lombarde, e per questo finì scomunicato dal papa che arrivò perfino ad organizzare contro di lui una crociata… ma questa è un'altra storia.

Per approfondire:
Il monologo di Dario Fo si può vedere su Youtube, all'indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=eFXVNfS7WjU&list=PLE6C49A9A59521EA1; il documento del 1347, con la lista dei beni persi durante l'assedio di Porta Galliera, è edito e commentato in L. FRATI, Il saccheggio del Castello di Porta Galliera nel 1334, in «Atti e Memorie per la deputazione di di Storia Patria per le Romagne», s. IV, II, 1911-12, pp. 41-90; sull'evoluzione del prezzo dei cavalli nei secoli medievali: A. BARBERO, Il cavallo come risorsa bellica: costi, obblighi, risarcimenti, in Cavalli e cavalieri. Guerra, gioco, finzione, a cura di F. Cardini e L. Mantelli, Pisa, 2011, pp. 137-62; sui berrovieri: A.A. SETTIA, "Berrovieri": una cavalleria leggera, in Id., Comuni in guerra. Armi ed eserciti nell'Italia delle città, Bologna 1993, pp. 71-89.

donne madonne mercanti e cavalieri di Alessandro Barbero