Mettendo ordine nel
mio archivio ho trovato un vecchio nastro con incisa l'ultima conversazione che
ebbi con Ubertalli, poco prima che morisse. Mi pare interessante pubblicarla.
Lucio Lami
— Quando andava all'estero,
Caprilli, andava per i cavalli?
— Sì, passava da Londra,
poi andava in Irlanda. Dopo di lui ci andai io.
— Racconti, cosa facevate
lassù?
— Si girava per
l'acquisto di cavalli.
— Andavate allo show di
Dublino?
— No. Giravamo per la
rimonta dei cavalli. Visitavamo i negozianti. Acquistavano i cavalli per la Scuola
di Cavalleria. Si faceva così dal 1891. Era stata istituita la rimonta degli
irlandesi perché allora il saltatore era solo l'irlandese. La scuola faceva due
rimonte, sempre con lo stesso giro: una per la scuola e una per i sottotenenti;
infatti l'allievo di cavalleria, quando entrava a Modena, lasciava un deposito di 2.500 lire: quel deposito
impegnava lo Stato a dargli un cavallo «suo» dal momento in cui avrebbe preso
servizio al Reggimento, e questo cavallo, allora, era irlandese.
— Chi vi accompagnava?
— Avevamo un sensale. Un
italiano pratico del mercato; più che un interprete era un sensale, un
cavallante. Le visite duravano una ventina di giorni.
— Era piacevole?
— Molto piacevole; allora
il cavallo italiano non era stato ancora migliorato: i cavalli degni della
sella non erano che irlandesi.
— Ve li davano interi?
— No. Erano già
castrati. Non solo, ma già
addestrati, montati... Là i cavalli li presentano montati. Si vedeva già se
erano promettenti.
— Li provavano anche su
qualche ostacolo?
— Qualcuno sì. Non
tutti. Quelli per esempio che portavano alla fiera venivano presentati
montati. Insomma si vedevano già le
attitudini. Gli esami finali degli allievi della nostra Cavalleria venivano fatti
con cavalli irlandesi. A questi esperimenti assisteva per consuetudine il re. Un giorno egli, di sua iniziativa,
osservò che i cavalli erano tutti irlandesi. «Ma come — disse — ma non ci sono cavalli italiani?». Così
cominciammo ad usare anche cavalli italiani. Io, a Pinerolo, avevo
l'incarico dell'addestramento: andavo a prendere i puledri ai depositi. Il più grosso era quello toscano di Grosseto. Li addestravo a dovere.
Da allora in poi gli esami furono fatti con cavalli italiani, così il re
rimase soddisfatto.
— Non potevano allevarli
anche qua gli irlandesi?
— Non è così semplice.
Il cavallo è un prodotto dell'ambiente, anzi, come dicevo allora, del suolo. Le
razze, trasportate, deperiscono. Di fatto, si può lavorare bene sulla razza di
purosangue inglese che è adoperata in
tutto il mondo. Anche i cavalli italiani che corrono o vengono direttamente di
là, oppure sono figli di purosangue. Insomma, la razza è quella. Eppure, in
ogni nazione, questo cavallo, col passare delle generazioni deperisce, niente
da fare, perché appunto c'è la questione dell'ambiente. E io quando fui in
Sardegna e feci delle statistiche, constatai che il purosangue inglese dopo che
era in Italia da sei anni cominciava ad esaurirsi. E Tesio, che oltre a essere
un proprietario di cavalli da corsa, era uno studioso, un uomo che faceva tutto
da sé, lo sapeva. Tutti gli altri erano dei ricchi
proprietari che ci rimettevano, lui, invece, si era arricchito. Era uno
studioso e che cos'aveva scoperto? Che si poteva far venire la cavalla incinta
dall'Inghilterra: il prodotto nasceva in Italia, questo prodotto era italiano,
perché era fatto qui. Ma era in realtà inglese. Tesio lavorava solo sul sangue
inglese. Diceva: è «per incrementare» il turf italiano. Sta di fatto che
portava delle cavalle incinte, quindi padre e madre inglesi. E con questo
cavallo «italiano» vinceva e batteva tutti i cavalli italiani. Ma era assai
capace, faceva tutto, tutto da solo.
— Infatti il suo libro è
stato tradotto in inglese e ha avuto grande successo in Inghilterra.
— Appunto. Era un
conoscitore profondo. E sosteneva che il cavallo italiano era buono quanto
l'inglese...
— Ah sì?
— Sì, ma io, in un articolo, gli avevo risposto « sì, ma i
cavalli italiani di Testo sono inglesi, non sono italiani»...Perché o hanno il
padre inglese, o hanno la madre. Di italiano non c'è niente, o poco. Ma Tesio
era grande per altri motivi: era allevatore, allenatore, sapeva anche insegnare
ai fantini, faceva tutto lui. Mentre nelle altre scuderie il proprietario è un
ricco, che pagava il direttore dell'allevamento, l'allenatore, il fantino,
insomma tutto quanto, Tesio non era condizionato da nessuno perché decideva
tutto lui. Questa era la sua forza.
— Caprilli montava anche in
corsa?
— Sì, da giovane sì. Sa,
allora era ancora possibile. Poi, un po' per il peso, un po' per i soldi,
smise. Il cavallo da corsa impegna troppo. Io stesso, da sottotenente, ho
montato in corsa, poi l'ho lasciata perché il cavallo bisognava tenerlo
allenato ma non lo si poteva tenere in ogni guarnigione. Quando non si poteva
averlo con sé bisognava ricorrere a un trainer, quindi era molto costoso.
Allora ho desistito. Ho fatto il concorso ippico, perché nel concorso il
cavallo ce l'avevamo di servizio. Poi, non c'è questione di peso.
— Lei è andato a Saumur, in
Francia?
— Sì sono andato, così
per una visita.
— Anche Caprilli so che vi
era andato, in visita. Con un braccio fasciato...
— Sì, io ci sono andato dopo.
Caprilli molto prima. Aveva un braccio al collo, perché se l'era rotto. Vi era
andato col generale Berta che aveva voluto farsi accompagnare da lui e poi
anche per vedere le novità. Gli fecero vedere un cavallo che non riuscivano a
lavorare e Caprilli lo montò con il braccio al collo. Il cavallo andò benissimo
perché la grande abilità di Caprilli era la sensibilità. Quell'episodio fece
epoca. Dopo di allora, molti cavalieri francesi, che frequentavano i concorsi
ippici, Bizard specialmente, che era mio amico, adottarono la nostra monta. Non
per scuola ma per imitazione. Erano già grandi cavalieri, ma adottarono la sua
monta. Quando andavo in Francia passavo sempre a trovarli. Adesso non so più
come sia...
L.L.
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