Molte
delle malattie di cui soffrono i cavalli ospitati nelle nostre scuderie
possono essere considera-te vere e proprie "tecnopatie", cioè
acciacchi indotti dal progresso. Un esempio classico è
certamente la bolsaggine, una affezione respiratoria su base allergica
che è sconosciuta ai cavalli selvaggi o inselvatichiti, ma
tristemente nota nelle nostre scuderie. Anche molte patologie degli
arti, dalle tendiiti e desmiti - cioè le affezioni ai tendini e
legamenti - ai malanni articolari, sono spesso indotte da un lavoro
troppo intenso o mal programmato.
Come si combattono queste malattie? La ricetta è semplice da un
lato ed impegnativa dall'altro. Per prima cosa, infatti, bisogna
esercitare un controllo accuratissimo e costante su tutti gli aspetti
della gestione del cavallo sportivo, dai box ai campi di esercizio,
dalla alimentazione alla programmazione del lavoro. Poi, è
necessario essere attenti ai più piccoli segnali di malessere
che il cavallo ci invia, saperli decodificare ed interpretare senza
allarmismi ma con la giusta attenzione. Certo, questo lavoro è
oscuro e richiede tempo ed energia. Anzi, per svolgerlo al meglio
occorre certamente un'al-tra componente: la passione per i cavalli. Ma
è un lavoro che paga, in termini di risultati e di
soddisfazioni. La capacità di seguire questo comportamento, e
cioè di tutelare nel modo più corretto il benessere del
cavallo, distingue e qualifica i grandi uomini di cavalli di ogni
tempo. Non appaia blasfemo, in questo senso, accostare a Caprilli
Senofonte da un lato e Monty Roberts dall'altro.
II benessere del cavallo infatti, prima di diventare una moda, era
oggetto delle stesse attenzioni di oggi, certo con i mezzi tecnici
relativi ai tempi. Ma gli uomini di cavalli veri hanno sempre avuto ben
chiaro come un cavallo ben trattato possa rendere più di uno che
trascina la sua vita tra contrarietà e malanni di ogni genere.
Di più: la tutela del benessere del cavallo, se da un lato
è certamente un dovere etico e morale, dall'altro è la
strada per ottenere da ciascun soggetto il massimo concesso dal suo
potenziale genetico e dalle sue condizioni di mantenimento.
Il Capitano Federico Caprilli era certamente attento al benessere dei
propri cavalli, come viene te-stimoniato da molti suoi scritti e dalle
descrizioni del suo operato in scuderia.
A proposito della valutazione delle scuderie, Carlo Giubbilei nota
come: "La sua [di Caprilli] presenza durante il governo dei cavalli era
sentita da tutti; con la pratica, la passione, l'occhio capace e la
grande esperienza nulla sfuggiva al suo passaggio. Anche un pelo che
fosse fuori posto veniva subito osservato. I capi plotone, quando lo
vedean giungere, se non avevano la coscienza tranquilla, per aver
trascurato qualche cosa nell'esecuzione di un ordine o
nell'applicazione delle massime impartite dal loro istruttore, stavan
sulle spine, convinti di non passarla liscia, perché nulla
sfuggiva alla sua ispezione. Egli però era buono e giusto nella
sua severità d'uomo energico e di soldato, e quando vedeva la
sincerità stampata in fronte al suo inferiore non eccedeva mai.
Più di una volta ai suoi graduati, che avean dimenticato di
eseguire ordini ricevuti, chiedeva il perché della trascuranza,
ed alla franca risposta: "Ho dimenticato" ribatteva solamente:
"Un'altra volta non dimentichi più".
Nella cura dei cavalli era meticoloso, otteneva che il materiale
quadrupedi molto lavorasse senza logorarsi. Aveva fatto fare delle
capezze speciali per i cavalli che si scioglievano la notte [i cavalli
erano ovviamente attaccati in posta], correggere e modificare le
cinghie sottosella di varie bardature, per evitare che chi le portava
si fiaccasse; aveva comprato quattro corde metalliche di 30 metri
ciascuna, che servivano per attaccarvi i cavalli al campo, alle
manovre, ai tiri; ad ogni metro di queste corde era legato e saldato un
anello di ferro, al quale si attaccava un cavallo. Ogni corda era
portata sulla sella da un cavaliere che non avesse armi, e costoro
erano il sellaio, il maniscalco e gli allievi, poiché tutti
montavano a cavallo, senza eccezione".
Se ne ricava un quadro molto preciso sia di Caprilli che della vita dei
cavalli di allora. Certo, oggi fa arricciare il naso anche il parlare
di cavalli alla posta. Ma il rendere le poste più razionali, al
tempo di Federico Caprilli, era certamente il massimo compatibile con
le condizioni in cui i cavalli venivano tenuti. L’evitare le
fiaccature, poi, era un modo per evitare inutili e dannose sofferenze
ai quadrupedi.
QUANDO UN CAVALLO NON SI ADATTAVA AD UN CAVALIERE VENIVA ASSEGNATO AD
UN ALTRO E, SE OCCORREVA, CAPRILLI MONTAVA EGLI STESSO QUALCHE BESTIA
TROPPO VIZIATA, CORREGGENDOLA CON UNA MAESTRIA CHE DESTAVA NEGLI
ALLIEVI AMMIRAZIONE. ACCADDE PIÙ DI UNA VOLTA CHE, DOPO AVER
MONTATO PER DIECI MINUTI UNA DELLE CAVALCATURE DEGLI ALLIEVI, LI
FACESSE RIMONTARE IN SELLA SULLA STESSA;
ED ALLORA SI AVEVA UNA SENSAZIONE VERAMENTE IMPRESSIONANTE:
IL CAVALLO NON SEMBRAVA PIÙ LO STESSO, ERA COMPLETAMENTE MUTATO,
APPARIVA COMPIUTA UN'OPERA DI MAGIA.
La nostra sensibilità odierna viene toccata dal leggere dei
cavalli definiti "materiale quadrupedi", ma nel termine, al tempo, non
vi era certamente nessuna delle connotazioni negative che oggi pos-sono
esservi legate. Dunque, un Caprilli vigile e scrupoloso, che usa i
cavalli "al campo, alle manovre, ai tiri...", e che li fa usare -
"tutti montavano a cavallo, senza eccezione"-, ma nelle migliori
condizioni possibili. Sembra quasi di vederlo, questo Caprilli che deve
essere burbero con i soldati per tutelare i cavalli e che regge il
ruolo tutelando i cavalli senza infierire sulla truppa. Ne esce il
quadro di un Caprilli equilibrato, ma determinato nel suo amore per i
cavalli.
Sempre Giubbilei descrive il momento in cui Caprilli controlla i cavalli ai suoi ordini con straordinaria efficacia:
"Federico Caprilli eseguiva l'esame attento dei cavalli nel momento
dell'uscita per l'istruzione, per evitare che qualche bucefalo zoppo
fosse montato egualmente dal suo cavaliere, che tentava di nasconderne
il difetto perché troppo gli doleva di dover rimanere a casa e
non salire in sella; la custodia della biada [avena, secondo la vecchia
dizione] perché essa facea più gola ai cavalieri che ai
cavalli, avendo i primi compreso ch'essa è la benzina del motore
che li conduce in groppa e se ne dimostravano molto avidi per
l'alimentazione dei loro destrieri".
Qui, appare chiaro come Caprilli non volesse far lavorare cavalli in
condizioni non perfette, a tutela ancora una volta del loro stato di
salute e per i danni che il lavoro eseguito in condizioni non perfette
può comportare. Emerge anche la voglia dei cavalieri di montare
e di fruire al massimo degli insegnamenti del loro istruttore
(situazione comune anche ai giorni nostri).
Infine, il riferimento alla avena è particolarmente illuminante:
al tempo, l'alimentazione dei cavalli militari non prevedeva cure
particolari, e dunque una razione più abbondante produceva
certamente un buon effetto sui cavalli. La situazione, con il tempo,
è migliorata, ma a volte si è arrivati all'opposto. Molti
malanni oggi sono dovuti a surplus alimentari (da alcuni tipi di
coliche alla pericolosissima laminite), per cui il benessere, nel caso
in questione ed in molti altri, si persegue attraverso un giusto
equilibrio ed evitando le esagerazioni.
Non mancano le testimonianze dello stesso Caprilli riguardo
all'importanza del cavaliere e dell'assetto nel determinare nel cavallo
il giusto stato di serenità. Commentando le buone prove dei
cava-lieri francesi al concorso ippico internazionale di Torino del
1902, il nostro Capitano scrive:
"Veniamo ora a renderci ragione del buon assetto dei francesi. Qualche
cosa vi ho già detto in proposito; aggiungerò che questi
dodici cavalieri eran tutti gente appassionatissima, che montava
giornalmente molto a cavallo, che aveva cacciato, galoppato e corso
assai. Eran composti essenzialmente per questo e perché
montavano tutti con un giusto criterio e con un principio giusto.
Essi avevano le redini lunghe e cedevano sempre il cavallo (col lasciar
scorrere le redini e talvolta anche con l'avanzare i pugni) quando
questo mostrava di dover distendere l'incollatura. In tal modo
evitavano gli urti e i contraccolpi, e ciò evidentemente
conferiva molto alla loro fermezza e quindi al loro assetto".
Alla base di buoni risultati ci sono quindi i soliti due ingredienti:
passione e rispetto del cavallo. E' incredibile qui la modernità
di Caprilli nell'indicare la giusta strada. Un mix di esperienze, anche
di diverso tipo (caccia, corsa, eccetera, per migliorare la
comprensione dei segnali inviati dal cavallo al cavaliere) e di
sensibilità ad evitare i traumi inutili, ad esempio alla bocca
ed alle barre, cedendo con le redini e con le braccia).
Il "sistema" caprilliano, con il cavaliere che segue il cavallo in
parabola, senza ostacolarne il naturale movimento, è in questo
senso paradigmatico.
Basta osservare la espressione, la posizione della schiena di un
cavallo che salta secondo il sistema precaprilliano e una successiva
all'adozione del suo metodo per rendersi conto di quante sofferenze
inutili Caprilli abbia evitato ai nostri compagni di avventure.
Ma non si esaurisce nel cambiamento della posizione sul salto la
"rivoluzione" caprilliana. E' il sistema di lavoro nel suo complesso ad
essere mutato. Nelle pagine di Giubbilei troviamo un passo che ci
rammenta i sistemi oggi in voga con la etichetta di "doma dolce":
"Quando Caprilli giunse a Pinerolo ai primi di Aprile egli era ancora
convalescente, ma cominciò a montare a cavallo ed ottenne di
esperimentare la sua abilità sopra una bellissima puledra
irlandese, che aveva il vizio di scappare al più piccolo
fastidio che la eccitasse. Si chiamava Ghiaia, e tutti coloro che
furono a quel tempo alla Scuola la ricordano; era stata giudicata una
cavalla da non potersi montare, pericolosa ed irriducibile, e che tale
si addimostrasse dispiaceva assai, data la sua bellezza di struttura ed
i suoi mezzi eccezionali.
Caprilli volle mutarne il carattere e vincerla con le blandizie,
montandola lungamente al passo, persuadendola con le carezze,
stancandola col lavoro alla corda per poi grado a grado, passare al
lavoro più severo, quando fosse mutata. E cosi fece... i salti
si succedevano ai salti, arrivavano sovente l'un dopo l'altro a passare
la cinquantina e via via verso il centinaio, numeri che quindici anni
or sono avrebbero spaventato e fatto pensare alla certa rovina della
propria cavalcatura, ma con l'equitazione naturale non era ormai
più da temersi quanto sembrava un tempo cosa quasi impossibile".
Il sistema dunque è di grande aiuto nel tutelare il benessere del cavallo.
Ma questo non è evidente solo alla sensibilità degli
uomini di cavalli di oggi. Nel riportare le principali innovazioni
introdotte da Caprilli con il suo metodo, scrive tra l'altro
l'Ispettore della cavalleria, Generale Berta, al Comandante della
Scuola: "Il Caprilli invece assegna, fin dal principio, a cia-scuna
recluta, un soldato anziano, il quale, montando con la recluta stessa,
le insegna quel tanto che serve per stare in equilibrio in sella, e con
le staffe, tanto al passo, quanto al trotto. ...la recluta acquista fin
dal principio quella elasticità e quella intima confidenza nel
cavallo, che sono indispensabili per poter interamente assecondare in
ogni caso i movimenti di questo... Il cavallo non punterà sulla
mano, ed il cavaliere potrà anzi con somma facilità
modificarne l'andatura ed anche fermarlo, con tutta calma, a pochi
passi dall'ostacolo stesso...
Il vecchio precetto del doversi condurre all'ostacolo il cavallo
riunito, dandogli il mezzo arresto sotto l'ostacolo per rilevarlo,
cedendolo quando sta per poggiare al suolo, era addirittura assurdo, e
si risolveva...per il cavallo, nell'abituarlo a puntare sulla mano per
sottrarsi alle atroci sofferenze cui era sottoposto, predisponendolo
così a divenire restio. Il rilevante numero di cavalli
recalcitranti che si notavano fino a pochi anni fa negli squadroni, non
era che il prodotto diretto, logico ed inesorabile di un tale sistema.
Contro questo erroneo sistema il Capitano Caprilli energicamente
reagì, sostituendo il principio che il cavaliere debba, durante
il salto, studiarsi di alleggerire il cavallo, assecondandone per
quanto può i naturali movimenti.
Se noi infatti osserviamo attentamente il modo di comportarsi del
cavallo scosso durante il salto, non possiamo fare a meno di
riconoscere come un tale principio sia sacrosanto. Il cavallo allunga
il collo, e quindi dapprima solleva l'anteriore e poscia il posteriore.
Orbene, essendo il cavallo montato, il cavaliere null'altro deve fare
se non assecondare i naturali movimenti di questo. Il corpo del
cavaliere deve, in una parola, studiarsi di saltare, come suoi dirsi,
col cavallo, in modo di non disturbarne minimamente, né
l'incollatura, né le reni".
Insomma, sono diverse le regioni del corpo del cavallo che si giovano
del "sistema": la bocca e le barre, l'incollatura, tutta la colonna
vertebrale ma in particolare la regione lombare.
Sarebbe tuttavia riduttivo limitare a questo aspetto il peso della
impostazione caprilliana sul benessere del cavallo. E' necessario
invece, come emerge da quanto riportato, cogliere l'insieme della sua
visione di quello che oggi chiamiamo management del cavallo sportivo.
Una lezione che, a cento anni di distanza, mantiene la sua
modernità.
A PINEROLO CAPRILLI USCIVA DI BUON MATTINO DAL CORTILE DELLA SCUOLA
ACCOMPAGNATO DAL GENERALE COMANDANTE [LUIGI BERTA] PER RECARSI AL CAMPO
OSTACOLI. QUI IL GENERALE PREGAVA IL CAPITANO CAPRILLI DI VOLERLO
CORREGGERE SENZA CERIMONIE SE COMMETTEVA ERRORI NELL'ESEGUIRE
L'ESERCIZIO DEL SALTO ALLE DIVERSE ANDATURE E CAPRILLI COMPIEVA CON LA
CONSUETA PASSIONE E LIETAMENTE IL SUO DOVERE. LE CORREZIONI NON SI
FACEVANO ASPETTARE...
IL GENERALE BERTA ERA COSÌ BRILLANTE CAVALIERE CHE SI POTEVA
DISCUTERE CON LUI E CON LUI SPERIMENTARE SENZA TEMA DI VENIR MENO AL
RISPETTO DOVUTO AD UN CAPO DI GRADO COSÌ ELEVATO E DI
COSÌ PROVATA COMPETENZA.
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