SOMMARIO

Anno V
Numero 1
Febbraio 2015

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ARCHIVIO

 

 

Caprilli e il benessere del cavallo
di Domenico Bergero

Molte delle malattie di cui soffrono i cavalli ospitati nelle nostre scuderie possono essere considera-te vere e proprie "tecnopatie", cioè acciacchi indotti dal progresso. Un esempio classico è certamente la bolsaggine, una affezione respiratoria su base allergica che è sconosciuta ai cavalli selvaggi o inselvatichiti, ma tristemente nota nelle nostre scuderie. Anche molte patologie degli arti, dalle tendiiti e desmiti - cioè le affezioni ai tendini e legamenti - ai malanni articolari, sono spesso indotte da un lavoro troppo intenso o mal programmato.
Come si combattono queste malattie? La ricetta è semplice da un lato ed impegnativa dall'altro. Per prima cosa, infatti, bisogna esercitare un controllo accuratissimo e costante su tutti gli aspetti della gestione del cavallo sportivo, dai box ai campi di esercizio, dalla alimentazione alla programmazione del lavoro. Poi, è necessario essere attenti ai più piccoli segnali di malessere che il cavallo ci invia, saperli decodificare ed interpretare senza allarmismi ma con la giusta attenzione. Certo, questo lavoro è oscuro e richiede tempo ed energia. Anzi, per svolgerlo al meglio occorre certamente un'al-tra componente: la passione per i cavalli. Ma è un lavoro che paga, in termini di risultati e di soddisfazioni. La capacità di seguire questo comportamento, e cioè di tutelare nel modo più corretto il benessere del cavallo, distingue e qualifica i grandi uomini di cavalli di ogni tempo. Non appaia blasfemo, in questo senso, accostare a Caprilli Senofonte da un lato e Monty Roberts dall'altro.
II benessere del cavallo infatti, prima di diventare una moda, era oggetto delle stesse attenzioni di oggi, certo con i mezzi tecnici relativi ai tempi. Ma gli uomini di cavalli veri hanno sempre avuto ben chiaro come un cavallo ben trattato possa rendere più di uno che trascina la sua vita tra contrarietà e malanni di ogni genere. Di più: la tutela del benessere del cavallo, se da un lato è certamente un dovere etico e morale, dall'altro è la strada per ottenere da ciascun soggetto il massimo concesso dal suo potenziale genetico e dalle sue condizioni di mantenimento.
Il Capitano Federico Caprilli era certamente attento al benessere dei propri cavalli, come viene te-stimoniato da molti suoi scritti e dalle descrizioni del suo operato in scuderia.
A proposito della valutazione delle scuderie, Carlo Giubbilei nota come: "La sua [di Caprilli] presenza durante il governo dei cavalli era sentita da tutti; con la pratica, la passione, l'occhio capace e la grande esperienza nulla sfuggiva al suo passaggio. Anche un pelo che fosse fuori posto veniva subito osservato. I capi plotone, quando lo vedean giungere, se non avevano la coscienza tranquilla, per aver trascurato qualche cosa nell'esecuzione di un ordine o nell'applicazione delle massime impartite dal loro istruttore, stavan sulle spine, convinti di non passarla liscia, perché nulla sfuggiva alla sua ispezione. Egli però era buono e giusto nella sua severità d'uomo energico e di soldato, e quando vedeva la sincerità stampata in fronte al suo inferiore non eccedeva mai. Più di una volta ai suoi graduati, che avean dimenticato di eseguire ordini ricevuti, chiedeva il perché della trascuranza, ed alla franca risposta: "Ho dimenticato" ribatteva solamente: "Un'altra volta non dimentichi più".
Nella cura dei cavalli era meticoloso, otteneva che il materiale quadrupedi molto lavorasse senza logorarsi. Aveva fatto fare delle capezze speciali per i cavalli che si scioglievano la notte [i cavalli erano ovviamente attaccati in posta], correggere e modificare le cinghie sottosella di varie bardature, per evitare che chi le portava si fiaccasse; aveva comprato quattro corde metalliche di 30 metri ciascuna, che servivano per attaccarvi i cavalli al campo, alle manovre, ai tiri; ad ogni metro di queste corde era legato e saldato un anello di ferro, al quale si attaccava un cavallo. Ogni corda era portata sulla sella da un cavaliere che non avesse armi, e costoro erano il sellaio, il maniscalco e gli allievi, poiché tutti montavano a cavallo, senza eccezione".
Se ne ricava un quadro molto preciso sia di Caprilli che della vita dei cavalli di allora. Certo, oggi fa arricciare il naso anche il parlare di cavalli alla posta. Ma il rendere le poste più razionali, al tempo di Federico Caprilli, era certamente il massimo compatibile con le condizioni in cui i cavalli venivano tenuti. L’evitare le fiaccature, poi, era un modo per evitare inutili e dannose sofferenze ai quadrupedi.

QUANDO UN CAVALLO NON SI ADATTAVA AD UN CAVALIERE VENIVA ASSEGNATO AD UN ALTRO E, SE OCCORREVA, CAPRILLI MONTAVA EGLI STESSO QUALCHE BESTIA TROPPO VIZIATA, CORREGGENDOLA CON UNA MAESTRIA CHE DESTAVA NEGLI ALLIEVI AMMIRAZIONE. ACCADDE PIÙ DI UNA VOLTA CHE, DOPO AVER MONTATO PER DIECI MINUTI UNA DELLE CAVALCATURE DEGLI ALLIEVI, LI FACESSE RIMONTARE IN SELLA SULLA STESSA;
ED ALLORA SI AVEVA UNA SENSAZIONE VERAMENTE IMPRESSIONANTE:
IL CAVALLO NON SEMBRAVA PIÙ LO STESSO, ERA COMPLETAMENTE MUTATO,
APPARIVA COMPIUTA UN'OPERA DI MAGIA.

La nostra sensibilità odierna viene toccata dal leggere dei cavalli definiti "materiale quadrupedi", ma nel termine, al tempo, non vi era certamente nessuna delle connotazioni negative che oggi pos-sono esservi legate. Dunque, un Caprilli vigile e scrupoloso, che usa i cavalli "al campo, alle manovre, ai tiri...", e che li fa usare - "tutti montavano a cavallo, senza eccezione"-, ma nelle migliori condizioni possibili. Sembra quasi di vederlo, questo Caprilli che deve essere burbero con i soldati per tutelare i cavalli e che regge il ruolo tutelando i cavalli senza infierire sulla truppa. Ne esce il quadro di un Caprilli equilibrato, ma determinato nel suo amore per i cavalli.
Sempre Giubbilei descrive il momento in cui Caprilli controlla i cavalli ai suoi ordini con straordinaria efficacia:
"Federico Caprilli eseguiva l'esame attento dei cavalli nel momento dell'uscita per l'istruzione, per evitare che qualche bucefalo zoppo fosse montato egualmente dal suo cavaliere, che tentava di nasconderne il difetto perché troppo gli doleva di dover rimanere a casa e non salire in sella; la custodia della biada [avena, secondo la vecchia dizione] perché essa facea più gola ai cavalieri che ai cavalli, avendo i primi compreso ch'essa è la benzina del motore che li conduce in groppa e se ne dimostravano molto avidi per l'alimentazione dei loro destrieri".
Qui, appare chiaro come Caprilli non volesse far lavorare cavalli in condizioni non perfette, a tutela ancora una volta del loro stato di salute e per i danni che il lavoro eseguito in condizioni non perfette può comportare. Emerge anche la voglia dei cavalieri di montare e di fruire al massimo degli insegnamenti del loro istruttore (situazione comune anche ai giorni nostri).
Infine, il riferimento alla avena è particolarmente illuminante: al tempo, l'alimentazione dei cavalli militari non prevedeva cure particolari, e dunque una razione più abbondante produceva certamente un buon effetto sui cavalli. La situazione, con il tempo, è migliorata, ma a volte si è arrivati all'opposto. Molti malanni oggi sono dovuti a surplus alimentari (da alcuni tipi di coliche alla pericolosissima laminite), per cui il benessere, nel caso in questione ed in molti altri, si persegue attraverso un giusto equilibrio ed evitando le esagerazioni.
Non mancano le testimonianze dello stesso Caprilli riguardo all'importanza del cavaliere e dell'assetto nel determinare nel cavallo il giusto stato di serenità. Commentando le buone prove dei cava-lieri francesi al concorso ippico internazionale di Torino del 1902, il nostro Capitano scrive:
"Veniamo ora a renderci ragione del buon assetto dei francesi. Qualche cosa vi ho già detto in proposito; aggiungerò che questi dodici cavalieri eran tutti gente appassionatissima, che montava giornalmente molto a cavallo, che aveva cacciato, galoppato e corso assai. Eran composti essenzialmente per questo e perché montavano tutti con un giusto criterio e con un principio giusto.
Essi avevano le redini lunghe e cedevano sempre il cavallo (col lasciar scorrere le redini e talvolta anche con l'avanzare i pugni) quando questo mostrava di dover distendere l'incollatura. In tal modo evitavano gli urti e i contraccolpi, e ciò evidentemente conferiva molto alla loro fermezza e quindi al loro assetto".
Alla base di buoni risultati ci sono quindi i soliti due ingredienti: passione e rispetto del cavallo. E' incredibile qui la modernità di Caprilli nell'indicare la giusta strada. Un mix di esperienze, anche di diverso tipo (caccia, corsa, eccetera, per migliorare la comprensione dei segnali inviati dal cavallo al cavaliere) e di sensibilità ad evitare i traumi inutili, ad esempio alla bocca ed alle barre, cedendo con le redini e con le braccia).
Il "sistema" caprilliano, con il cavaliere che segue il cavallo in parabola, senza ostacolarne il naturale movimento, è in questo senso paradigmatico.
Basta osservare la espressione, la posizione della schiena di un cavallo che salta secondo il sistema precaprilliano e una successiva all'adozione del suo metodo per rendersi conto di quante sofferenze inutili Caprilli abbia evitato ai nostri compagni di avventure.
Ma non si esaurisce nel cambiamento della posizione sul salto la "rivoluzione" caprilliana. E' il sistema di lavoro nel suo complesso ad essere mutato. Nelle pagine di Giubbilei troviamo un passo che ci rammenta i sistemi oggi in voga con la etichetta di "doma dolce":
"Quando Caprilli giunse a Pinerolo ai primi di Aprile egli era ancora convalescente, ma cominciò a montare a cavallo ed ottenne di esperimentare la sua abilità sopra una bellissima puledra irlandese, che aveva il vizio di scappare al più piccolo fastidio che la eccitasse. Si chiamava Ghiaia, e tutti coloro che furono a quel tempo alla Scuola la ricordano; era stata giudicata una cavalla da non potersi montare, pericolosa ed irriducibile, e che tale si addimostrasse dispiaceva assai, data la sua bellezza di struttura ed i suoi mezzi eccezionali.
Caprilli volle mutarne il carattere e vincerla con le blandizie, montandola lungamente al passo, persuadendola con le carezze, stancandola col lavoro alla corda per poi grado a grado, passare al lavoro più severo, quando fosse mutata. E cosi fece... i salti si succedevano ai salti, arrivavano sovente l'un dopo l'altro a passare la cinquantina e via via verso il centinaio, numeri che quindici anni or sono avrebbero spaventato e fatto pensare alla certa rovina della propria cavalcatura, ma con l'equitazione naturale non era ormai più da temersi quanto sembrava un tempo cosa quasi impossibile".
Il sistema dunque è di grande aiuto nel tutelare il benessere del cavallo.
Ma questo non è evidente solo alla sensibilità degli uomini di cavalli di oggi. Nel riportare le principali innovazioni introdotte da Caprilli con il suo metodo, scrive tra l'altro l'Ispettore della cavalleria, Generale Berta, al Comandante della Scuola: "Il Caprilli invece assegna, fin dal principio, a cia-scuna recluta, un soldato anziano, il quale, montando con la recluta stessa, le insegna quel tanto che serve per stare in equilibrio in sella, e con le staffe, tanto al passo, quanto al trotto. ...la recluta acquista fin dal principio quella elasticità e quella intima confidenza nel cavallo, che sono indispensabili per poter interamente assecondare in ogni caso i movimenti di questo... Il cavallo non punterà sulla mano, ed il cavaliere potrà anzi con somma facilità modificarne l'andatura ed anche fermarlo, con tutta calma, a pochi passi dall'ostacolo stesso...
Il vecchio precetto del doversi condurre all'ostacolo il cavallo riunito, dandogli il mezzo arresto sotto l'ostacolo per rilevarlo, cedendolo quando sta per poggiare al suolo, era addirittura assurdo, e si risolveva...per il cavallo, nell'abituarlo a puntare sulla mano per sottrarsi alle atroci sofferenze cui era sottoposto, predisponendolo così a divenire restio. Il rilevante numero di cavalli recalcitranti che si notavano fino a pochi anni fa negli squadroni, non era che il prodotto diretto, logico ed inesorabile di un tale sistema.
Contro questo erroneo sistema il Capitano Caprilli energicamente reagì, sostituendo il principio che il cavaliere debba, durante il salto, studiarsi di alleggerire il cavallo, assecondandone per quanto può i naturali movimenti.
Se noi infatti osserviamo attentamente il modo di comportarsi del cavallo scosso durante il salto, non possiamo fare a meno di riconoscere come un tale principio sia sacrosanto. Il cavallo allunga il collo, e quindi dapprima solleva l'anteriore e poscia il posteriore. Orbene, essendo il cavallo montato, il cavaliere null'altro deve fare se non assecondare i naturali movimenti di questo. Il corpo del cavaliere deve, in una parola, studiarsi di saltare, come suoi dirsi, col cavallo, in modo di non disturbarne minimamente, né l'incollatura, né le reni".
Insomma, sono diverse le regioni del corpo del cavallo che si giovano del "sistema": la bocca e le barre, l'incollatura, tutta la colonna vertebrale ma in particolare la regione lombare.
Sarebbe tuttavia riduttivo limitare a questo aspetto il peso della impostazione caprilliana sul benessere del cavallo. E' necessario invece, come emerge da quanto riportato, cogliere l'insieme della sua visione di quello che oggi chiamiamo management del cavallo sportivo. Una lezione che, a cento anni di distanza, mantiene la sua modernità.

A PINEROLO CAPRILLI USCIVA DI BUON MATTINO DAL CORTILE DELLA SCUOLA ACCOMPAGNATO DAL GENERALE COMANDANTE [LUIGI BERTA] PER RECARSI AL CAMPO OSTACOLI. QUI IL GENERALE PREGAVA IL CAPITANO CAPRILLI DI VOLERLO CORREGGERE SENZA CERIMONIE SE COMMETTEVA ERRORI NELL'ESEGUIRE L'ESERCIZIO DEL SALTO ALLE DIVERSE ANDATURE E CAPRILLI COMPIEVA CON LA CONSUETA PASSIONE E LIETAMENTE IL SUO DOVERE. LE CORREZIONI NON SI FACEVANO ASPETTARE...
IL GENERALE BERTA ERA COSÌ BRILLANTE CAVALIERE CHE SI POTEVA DISCUTERE CON LUI E CON LUI SPERIMENTARE SENZA TEMA DI VENIR MENO AL RISPETTO DOVUTO AD UN CAPO DI GRADO COSÌ ELEVATO E DI COSÌ PROVATA COMPETENZA.