SOMMARIO

Anno V
Numero 1
Febbraio 2015

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ARCHIVIO

 

 

 

 

Romilda
di Roberto Vaglio

romilda 1

A maggio, quando morì la vecchia Gisella, giunta dalla città, si stabilì in paese la sua giovane nipote, Romilda. Firmò gli atti dal notaio, parlò con il podestà (1)  e poi si trasferì nella bella casa di Gisella, sul bricco (2)  più alto, che a guardarlo dal paese spicca verdissimo sullo sfondo delle montagne. Romilda era molto bella, alta, slanciata, bionda con i lunghi capelli sempre raccolti in trecce e gli occhi di un azzurro profondo. Presto la casa riprese a vivere: il giardino curato, l’orto ordinato, le rose fiorite a far cornice al cancelletto d’ingresso, tutto stava a dimostrare che Romilda era una ragazza buona e coscienziosa. Aveva talmente tante doti che presto i giovanotti del paese cominciarono a ronzare attorno alla casa di Gisella come api attorno ad un fiore. Ma Romilda, cortese ed educata con tutti, non dava spago a nessuno né era solita fare la smorfiosa. In paese tutti apprezzavano il suo comportamento ed era benvoluta.
Nel mese di settembre Stefano, il figlio del farmacista, finì il servizio militare. Con la sua uniforme di panno blu, il kepì in testa, le buffetterie bianche (3)  e lo zaino a spalla tornava al paese. Era notte ma la luna piena illuminava i prati. Stefano era felice: tra poco sarebbe stato di nuova a casa sua, tra la sua gente. D’un tratto sul versante della collina vide un cavallo bianco al galoppo, la criniera al vento e la coda alta, diritta e fiera. Stefano si ferma come abbagliato dalla visione e il cavallo, ora distante da lui solo una ventina di metri, si inchioda sulle quattro zampe, lo osserva a sua volta, nitrisce, si volta e galoppa scomparendo lontano. Stefano pensa: “Che cavallo meraviglioso. Devo sapere chi è il padrone e convincerlo a vendermelo!”. E sospirando si avviò verso casa.  Fu grande festa  nella casa del farmacista ma a Stefano la curiosità arrovellava il cervello. “Padre, di chi sono i prati sulla collina?” “Vuoi dire il bricco di Gisella? Dalla sua morte sono della nipote, Romilda”. La mattina dopo, quando l’ora parve decente, Stefano si diresse alla casa di Romilda. “Signorina voi possedete un cavallo bianco che la notte galoppa nei prati?”. “No caro signore. Non posseggo altri animali che il mio gattino (4) , quello nero che vedete nascondersi lassù sul fienile”. Ma qualcosa scattò nella mente e nel cuore dei due giovani, che, con gli occhi persi negli occhi, presto dimenticarono i cavalli e notti di luna piena. Fu solo il campanile che rintocco il mezzodì a farli tornare su questa terra. Stefano imbarazzato salutò scusandosi dell’incomodo, Romilda abbassò pudicamente gli occhi, arrossendo. Fatti quattro passi verso il borgo Stefano trovò il coraggio, vi volto e chiese “Signorina Romilda, posso tornare a trovarvi qualche volta?”. Romilda annuì e corse in casa con il cuore che batteva all’impazzata. Le visite di protrassero, con sempre maggiore frequenza, per tutto l’autunno e l’inverno fino a marzo quando Stefano decise di parlare al padre per avere l’autorizzazione di chiedere Romilda in sposa (5) . A dire la verità tanto il farmacista quanto tutti gli altri paesani si domandavano quanto avrebbero ancora atteso i due innamorati a convolare a giuste nozze. Era uno splendido mese di maggio quando si celebrò il matrimonio, sembrava che le rose ed i fiori dei giardini del piccolo borgo avessero atteso un evento eccezionale per dare sfogo a tutta la loro bellezza. Stefano e Romilda stabilirono nella casa di Gisella il loro domicilio coniugale e lì iniziarono a vivere una storia d‘amore di quelle che solo sui libri sembrano esistere. Era giunto luglio quando nel cuore della notte Stefano si svegliò con una strana sensazione. Romilda non era nel letto accanto a lui. In preda ad un’improvvisa agitazione Stefano balzò dal letto: in un attimo fu nel giardino ma di Romilda nessuna traccia. Il cancelletto tra le rose era aperto. Corse fuori e di qui verso il borgo. Non c’era pericolo di inciampare con quella luna piena… Come folgorato andò ai prati e lì galoppava il cavallo bianco. Stefano si nascose dietro un folto cespuglio e quando il cavallo fu lì vicino balzò dal suo nascondiglio e lo abbraccio al collo. Per un attimo si trovarono, uomo ed animale, con gli occhi negli occhi: quelli del cavallo erano di un azzurro profondo! Per la sorpresa Stefano mollò la presa ed il cavallo, via di corsa, sparì dietro il crinale. Un dubbio si insinuava nel cervello di Stefano: dalle valli fino alla Langa (6), in tutto il cuneese si sa che certe donne hanno il dono, o la maledizione, di trasformarsi in animali. “Ho sposato una masca (7) , sarò forse per questo dannato in eterno?” che erano ancora recenti le memorie di roghi e inquisitori (8) . Deciso a fare luce sulla questione ritornò a casa ma nell’attraversare il giardino il gatto nero di Romilda gli finì tra i piedi facendolo ruzzolare a terra. “Contacc (9) al gatto!” Si rialza un po’ indolenzito, controlla che nulla sia sgusciato dalle tasche, si accerta che il gatto non abbia riportato danni (ma si è mai visto un gatto che si faccia male quando fa una marminella (10) ?) e rientra in camera da letto massaggiandosi un gomito. Romilda è in piedi accanto al letto, trafelata, con i capelli sciolti sulle spalle. “Stefano cosa è accaduto che ti sei precipitato fuori casa nel cuore della notte? Ti ho sentito dalla cucina dove ero andata a bere un sorso d’acqua e mi sono preoccupata. Quando poi ho sentito quel gran baccano in giardino ho pensato che dei birbanti ti fossero saltati addosso e solo ora che ti vedo sano e salvo mi riprendo un poco dallo spavento. Ma ti prego, raccontami.” Tra se Stefano pensò “…e che cosa le racconto, che sono un salame, uno che vede cavalli con gli occhi azzurri e dubita della propria moglie, uno che invece di ringraziare Dio per il dono dell’amore di Romilda si immagina magia e fisica sotto il proprio tetto. No le racconto la verità”. “Mi sono svegliato e non ti trovata accanto a me. Forse ero ancora un po’ addormentato sono uscito di casa ma il sogno mi ha seguito e ho rivisto quel magnifico cavallo. Sono tornato a casa e non ho visto il micio nero, l’ho travolto e sono caduto. No, nessun problema: il micio sta benissimo. Ed io sono felice di essere di nuovo accanto a te!”.
La storia ci dice che di cavalli nelle notti di luna piena sul bricco di Gisella non se ne sono visti più, che dopo l’inverno, in aprile quella casa fu allietata dall’arrivo di una splendida bambina con i capelli biondi, che il gatto nero prese immediatamente a balia, presidiandone giorno e notte la culla. Di figli ne arrivarono ancora altri cinque ma quella prima bambina fu davvero speciale. Ma questa è tutta un’altra storia. 

(1) Capo del comune medioevale che rendeva giustizia e guidava l’esercito in guerra.
  (2) La cima aguzza di una collina. Zingarelli ritiene sia un termine di radice preindoeuropea, cioè che risale a culture precedenti quella latina.

(3) Queste sono le caratteristiche delle divise militari ottocentesche. La giacca è corta con due file di bottoni di metallo lucido che la chiudono fin sotto il collo, il colletto con le mostrine, il kepì è un cappello cilindrico alto 10- 15 cm con visiera di tela cerata e sottogola, le buffetterie sono il cinturone a cui è appesa la sciabola (sabro) o la baionetta (corta sciabola che si monta sulla canna del fucile), la giberna in cui vengono custodite le cartucce, ed infine le due bandoliere incrociate che passando sulle spalle sorreggono il cinturone. romilda 2

  (4) Il gatto nero è un simbolo di una magia a volte solo misteriosa, a volte perversa. È l’animale imperscrutabile, autosufficiente che decide con chi e per quanto tempo accompagnarsi; mai ha un padrone,se mai un ospite. Di notte i suoi occhi gialli fiammeggiano nell’oscurità quasi a ricordare le fiamme dell’inferno dei dannati. Tanto bastava per intessere attorno al povero micio tutta una pletora di leggende e storie spaventose.
  (5) Il capofamiglia fino a pochi anni fa doveva decidere per il bene di tutto il nucleo familiare. Le scelte sulla possibilità di fare delle spese o assumersi responsabilità nei confronti di terzi era una sua competenza esclusiva che nessuno metteva in dubbio: erano tempi in cui era duro mettere assieme il pranzo con la cena e quindi ne andava della sopravvivenza dell’intera famiglia. Ovvio che una decisione importante come un matrimonio dipendesse dal capofamiglia.
 (6) Dalle nostre valli per raggiungere la Langa bisogna scendere a valle, attraversare la pianura alluvionale e risalire su quelle colline. Per chi viveva sulla montagna cuneese dire dalle valli alla Langa equivaleva a dire: da una parte all’altra del mondo conosciuto. 
 (7) Masca è il piemontese sinonimo di strega ma il termine italiano è riduttivo. Masca è anche l’essere umano che si trasforma in bestia, chi sa parlare con i morti, chi legge gli avvenimenti negli oggetti, chi predice il futuro, chi lancia maledizioni oppure ve ne libera. Masca è tutto quello che è magico, inspiegabile, ad di là dell’umana comprensione. In secoli dove scienza e cultura erano poca cosa e in più patrimonio di pochissimi, di cose inspiegabili dovevano essercene moltissime e quindi moltissime erano le forme di stregoneria e di magia che intessevano la cultura e la vita di quei nostri antenati.
 (8) Dopo il Concilio di Trento (1563) e fin oltre la metà del ‘600 l’Inquisizione, per reazione alla riforma luterana, attuò una capillare azione di identificazione dell’eresia in ogni sua forma. Ne patirono scienziati, filosofi, protestanti ed ebrei, ma anche uomini e donne semplici, per qualche motivo oggetto di pubbliche denunce. Così toccò ai deformi e agli storpi di finire sul rogo, e soprattutto alle indemoniate, alle figlie di Satana, alle streghe. A questa vergogna storica non si sottrasse il Piemonte: ancora nella prima metà del secolo qualche poveretta finì bruciata per presunte pratiche magiche. Le ultime due vittime documentate furono mandate al rogo a Cairo nel 1630 dopo un processo in cui furono coinvolte 6 donne del posto. Ecco perché all’epoca del nostro racconto la memoria è ancora fresca.  

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 (9) Contacc = contagio. Questa imprecazione risale al XVI secolo, durante l’imperversare delle tremende epidemie di peste e di vaiolo. Citare questa grande disgrazia si pensava potesse avere l’effetto di scongiurala. 
 (10) Piemontesismo per indicare birichineria, monelleria, malefatta.