Racconto
un viaggio di tanta strada, tante notti di bivacco, tanti incontri.
Tutto è troppo. Preferisco mettere a fuoco alcuni istanti che
raccontare un itinerario che ciascuno può costruirsi a sua
immagine e somiglianza.
INIZIA L'AVVENTURA
Quattro giugno: è cominciata l’avventura vera e propria.
Isotta ed io siamo partite da Trenta, dalla sede del Triglavski Narodne
Park e siamo salite al passo Vršic. I monti della Slovenia
settentrionale sono selvatici e accoglienti come la gente che li abita.
Non c’è da temere l’ostacolo della lingua
perchè tra inglese, tedesco e italiano cercano sempre tutti di
capire e farsi capire e tutto è talmente semplice da apparire
chiaro. Partire da qui anzichè da un altro posto era necessario
perchè qui vicino è stato messo il radiocollare a Slavcz,
il lupo di cui abbiamo seguito le tracce fino alla Lessinia e
perché qui il lupo è un animale come gli altri e quando
crea problemi viene gestito come qualsiasi altro animale.
LA CARNIA, CAMMINO SU MARCE PESANTI
Il colle si trova a poco meno di millecinquecento metri sul livello del mare, poca cosa da queste parti.
In Austria nessuno sapeva descrivermi cosa avrei trovato al di
là, in Italia pochi avevano idea di cosa ci fosse
scendendo verso l’Austria.
La strada che collega i due versanti è sterrata ma interamente carrozzabile.
A nord del colle c’è la Gailtal, una terra promessa
verdeggiante di prati e boschi con un bel fiume sinuoso che la
percorre. A sud c’è la Carnia, territorio appuntito per le
forme del paesaggio e per la storia che lo ha tormentato.
È un territorio di frontiera, di quelli che tutti vogliono per
ampliare i loro domini e che non servono a nessuno per la forma arcigna
dei suoi pendii dove ogni metro messo in piano è una conquista
eroica.
La gente che abita queste montagne è gente di valore,
conquistato contro frane e alluvioni assistendo a conquiste e disfatte
degli eserciti che sono passati di qui.
Cercavo un prato in piano dove passare la notte, un desiderio da
lampada di Aladino su questi versanti foderati dalla foresta.
Giunta nella frazione di Murzalis vedo scomparire dietro una casa una
signora anziana e minuscola con il suo cane. Oltre il tornante me la
ritrovo davanti e la vedo scomparire di nuovo. Rapida come un folletto
percorre viuzze che lei sa e io no e mi sento sotto il suo controllo.
In cima al paese non sono ancora riuscita a incontrare altri segni di
umanità e sento una voce di donna saltar fuori da una finestra.
– Apparecchia la tavola, è pronto!
Finalmente c’è qualcuno oltre al folletto.
Mando una voce e suono il campanello. Viene fuori Sergio e con lui la
soluzione per il posto dove posso accamparmi. Mentre parlo con lui, la
signora spunta da dietro una casa, gli sussurra qualcosa e poi sparisce.
Gli aveva detto che se volevo potevo dormire nella sua stalla!
– Ma chi è quella signora che sembra un folletto?
– È Mariota, sai quanti anni ha? È del trenta!
– Allora era qui quando sono arrivati i cosacchi.
– Sì, aveva quindici anni.
Lei nel frattempo era proprio scomparsa e io preferivo il bel prato in piano che era saltato fuori.
Il mattino dopo sono partita prima che fosse possibile parlarle e non
ho potuto sapere niente di più di quello che mi ha raccontato
Sergio.
Quando sono arrivati i cosacchi c’era miseria come sempre, ma qui
la guerra non aveva avuto un fronte doloroso come in altri posti. Erano
arrivati i tedeschi, avevano deciso che la Carnia gli apparteneva e la
gente aveva continuato a vivere come prima.
Quando i tedeschi avevano assegnato le case della popolazione ai
cosacchi, erano tutti talmente abituati alla guerra che si sono
semplicemente stretti per far posto e tirare avanti. Quella gente era disperata
alla stessa maniera loro e in più era senza casa.
In altri paesi ci sono stati brutti episodi, ma qui no. Certo che non
era bello doversi stringere ancora di più in posti già
stretti ma era tempo di guerra e loro erano ragazzi in gamba, nel
lavoro dei campi e della legna non erano secondi a nessuno.
– Avete più avuto notizie di quelli che erano stati qui, dopo che se ne sono andati?
– No, credo che siano morti tutti
Arrivata a Paluzza, una bacheca di informazioni turistiche mi segnala
che stavo attraversando il percorso della disfatta di Caporetto. Tutta
questa gente che ha camminato in questo stesso posto dove sto passando
ne aveva viste di tutti i colori.
Vado oltre e salgo verso Timau, era lo stesso periodo in un anno
diverso e i cosacchi passavano da qui per andare ad affidarsi agli
inglesi.
Piove, la valle è bellissima, la vedo a tratti, una montagna alla
volta ogni volta che si alza una nuvola. Qualcosa di compìto e
astratto mi lascia assorta finchè non vedo più la strada
del Plockner Pass.
CANAL SAN BOVO, PAESE DI PASTORI
Era arrivata una lettera di Miky, dentro c'era la foto di un cavallo
che sembrava un grande amico e dietro c'erano scritte alcune parole.
Tra me e me ho dovuto dirmi: -se vuoi percorrere tutte le Alpi a
cavallo e non vai a cercare questa persona, fai che non partire.
Cercata e trovata sopra Canal San Bovo. Ho chiesto ai pastori
come fare a trovarla, qualcuno la conosceva, qualcuno conosceva suo
padre, non poteva essere altri che lei e mi hanno indicato la strada:
una mulattiera senza curve e con molto dislivello tutta chiusa in una
foresta sempre più scura.
Miky me lo aveva anticipato:
- quest'estate se non piove tutto il giorno, piove almeno tutto il giorno
Minacciava di piovere ed è piovuto, appena sono sbucata fuori
dalla foresta e ho visto il colle verdeggiante di morbidi pascoli,
proprio davanti a me il cielo ha rovesciato una secchiata d'acqua dopo
l'altra per cinque minuti.
Mi ero detta che dopo l'incontro con Miky ci sarebbe sempre stato il sole.
Appena sono arrivata al recinto della stalla si è alzato un gran
vento, ho montato il telo ma stava già asciugando tutto.
Il mattino dopo c'era il sole.
IL PANNELLO SOLARE DALLA LESSINIA AL LAGO DI GARDA
Ripartita dalla Vallina Alta con un’idea di marciare a spron
battuto fino alla Sega, fermandomi solo un momento alla Malga di Campo
Retratto, dove Tommaso mi ha detto che c’è un allevatore
che ha preso in consegna un cane da guardiania ed è anche casaro.
Sembrava che fosse chissà dove, in un attimo ero lì.
Abbaia un piccolo cane, arriva Ettore. Da giovane era quello che una
volta veniva chiamato vaccaro: lavorava sotto padrone e guardava
animali che non erano suoi. Un pezzo per volta ha formato una bella
famiglia ed è riuscito ad avere la sua mandria, la terra e la
stalla. La stalla è una vecchia stalla, da fuori assomiglia a
tutte le altre della Lessinia con le sue pareti di pietra rosata
puntellate di ammoniti e le grandi lose che coprono il tetto. Dentro
sembra una cattedrale, colonne di pietra che reggono archi ad ogiva
sostengono il tetto e dividono in tre campate le due corsie dove gli
animali vengono legati per la mungitura e quella centrale per passare
con la carriola del letame, i bidoni del latte e il mangime. Latte
letame e mangime dentro un’architettura di pietra e legno e un
mare di monti foderati d’erba intorno. Incontro a me Ettore.
Capisco che non posso passare di qui al volo e mentre rispondo alle sue
domande scarico i cilindri e le musette da Isotta. Lei si mette a
brucare con l’aria di un cavallo che è arrivato a casa.
Andiamo nell’ombra della casa dove c’è Emma che
prepara immediatamente un caffè e mi coccolano come un ospite di
riguardo.
Il formaggio non c’è verso di pagarlo e lo infilo in una
musetta, la lego alla sella, lego l’altra è prendo il
cilindro posteriore. Ma dov’è il pannello solare? Qui non
c’è. Lì neanche, l’ho lasciato sulla pietra
dove lo avevo messo al sole alla Vallina Alta.
No!
Arriva Renato, uno dei due gemelli e mi accompagna in
auto fino alla pietra che a quel punto sembrava lontanissima. Nessuna traccia. Andiamo a chiedere al malgaro lì sopra,
non ne sa niente. Mi ricordo di aver visto giungere un fuoristrada
rosso che lì non c’è, mentre andavo via
un’ora prima.
Sì, era Tommaso ma se n’è andato e nessuno sa il
suo numero di telefono. Il telefono! Preoccupata di non poterlo
più caricare, spengo il mio.
Da una persona all’altra, Renato riesce a trovare il numero di
questo signor Tommaso che molto probabilmente è l’unica
persona che è passata da lì oltre a me. Tento di
riaccendere il telefono, richiede il pin. Il mio cervello è
vuoto e ne metto tre sbagliati fino a bloccare il telefono. Ci pensa
Emma.
Mi seggo sulla panchina di fronte all’abitazione e cerco di
mettermi in ordine. Devo fermarmi qui. Non posso risolvere
diversamente. Ettore acconsente e mi dà un po’di mangime
per le mucche da dare a Isotta, mentre va a mungere.
Sistemo le mie cose nella solita disposizione e monto il telo in quel
posto magnifico, provo a fare qualunque cosa mi possa distrarre, non
riesco a combinare niente.
Esce Emma che stava preparando la cena e mi fa notare una statuina di
legno che ritrae San Francesco e guarda la valle nascosta dentro un
ceppo di platano divorato dal cancro che è stato portato fino
qui dalla stessa persona che ha regalato a questa famiglia la statuina
di San Francesco.
– Ce l’ha portata quando sono arrivati i lupi
in Lessinia e da noi non sono mai venuti. Quest’anno non gli ho
ancora portato neanche un fiore
– Vado a prenderli
Mi spargo nel prato sottostante puntellato di ranuncoli e achillee e
cerco di non pensare ad altro che a quella mucca che ha partorito
stamattina, ha fatto una fatica terribile e adesso è ko.
Il momento della cena è silenzioso, una bella scodella di latte davanti e la testa di tutti altrove.
Torna Renato che è andato a vedere la mucca e finalmente Tommaso
risponde. Sarà qui tra mezz’ora con il pannello. Nello
stesso momento arriva anche il nuovo codice PUK e il telefono funziona
di nuovo. C’è di nuovo tutto!
Riparto per la valle dell’Adige, una bella dormita alle spalle,
una bella pista davanti e quando approdo a Malga Riondera posiziono il
pannello per caricare la macchina foto. Non carica più. Non
saprò mai cosa è successo da quando l’ho
dimenticato a quando Tommaso lo ha riportato, probabilmente si è
offeso.
Rotto per rotto faccio che smontarlo per capire che cos’ha. Si
sono staccati due fili e basterebbe un saldatore allo zinco per
rimettere tutto in ordine. Ovviamente non ne ho uno dietro. Chiudo
tutto e spero di incontrare un elettricista.
Stavo scendendo sul lago di Garda da una mulattiera che mi metteva al
sicuro dal traffico del weekend. Sulla strada è tutto un
brulicare di gente e qui non c’è l’ombra di nessuno.
Avanzo tranquilla proprio in mezzo e di colpo Isotta mi salta addosso
mentre sento la frenata di due biciclette che si fermano a poca
distanza dalla sua coda.
– Ma che succede?
– Ciao Paola!
Guardo bene: era Simone! Ci eravamo conosciuti al corso da guide a cavallo di febbraio. Sembrava fatto apposta.
Passo la giornata nella scuderia che ospita i suoi cavalli e mentre parliamo del viaggio viene fuori la storia del pannello.
– posso saldarteli io i fili.
In un attimo il pannello torna a rispondere al sole. Già che ci
sono faccio alcune modifiche perchè sia più comodo da
legare al cilindro. È meglio di prima.
La Malga di Campo Retratto è un posto magnifico e a chi
capitasse di passare di lì, chieda a Ettore di poter vedere quel
capolavoro di stalla e si compri un pezzo di Monte veronese, lo fa lui
e sa solo di fiori.
Il centro equestre dove Simone lavora come guida è vicino al
lago di Garda, il lago è protagonista dello spettacolo e le
persone che lavorano lì sono parte dello spettacolo. Chi
capitasse lì, chieda di Simone e Valentina e scoprirà un
mondo parallelo, nella loro storia c’è una vita a Madonna
di Campiglio e una scommessa in riva al lago di Garda.
Questa è la storia di come Ettore, Renato, Emma, San Francesco,
Tommaso e Simone si sono messi d’impegno per far proseguire
questo viaggio nonostante la mia dabbenaggine.
LA CASA DEGLI UOMINI GIUSTI
Val Camonica
Mu, primo luglio duemila sedici.
Scendevo dal passo del Tonale su una bellissima pista, in una
bellissima valle, con una splendida cavalla e con il cuore sotto i
piedi.
La ferratura forgiata da Andrea aveva subìto due brutti
incidenti e non mi sentivo di affidarmi alla mia rimessa. Era
necessario l’intervento di un professionista.
Scendevo lungo questa bella strada valeriana e a ogni rumore sospetto
guardavo quel povero piede. Il piede era lì. Nessuno in giro, piove a tratti. Incontro un signore con un
cane. Ha un amico maniscalco. Gli chiedo come si chiama e chiamo
Andrea per sapere se lo conosce. Andrea dice che è un vero
maniscalco. Chiedo il numero a quel passante giusto che è
arrivato proprio mentre passavo con tutta la mia inquietudine.
Daniel può venire solo tra due giorni. Occorre che io trovi un
posto con una tettoia, un battuto in cemento, la corrente e il gas.
Ok.
Tutte cose che non posso avere con me.
Ok.
Ho tutto domani per cercarle.
Edolo, cinque luglio duemilasedici
Piccole cose a volte richiedono grandi sforzi. Grandi cose capitano
perché è il momento. Devio dal sentiero che è
troppo trafficato e vedo la tettoia della forma che avevo immaginato
con il battuto in cemento e una bella ringhiera di legno. Giro intorno
all’edificio e c’è una vasca con un getto
d’acqua cristallina. Di fianco alla porta, seduto
all’ombra, c’è Luigi, è del Trentacinque,
è fatto di nervi e dolcezza. Parliamo un pochino lì
all’ombra e a mezzogiorno meno cinque prende la sua bicicletta e
se ne va.
1 Luigi e Isotta si sono capiti al volo.
– Se passa qualcuno e ti chiede cosa fai qui, digli che Luigino ti ha detto di stare qui.
L’erba del prato è tagliata giusta, un argine ci divide dalla strada sovrastante, Isotta libera sta lì.
Arrivano Irene, la figlia di Luigino, Manuel, figlio di Irene, Martina,
figlia di Manuel. Quattro generazioni di camuni. Da Irene in
giù, motociclisti per passione e per lavoro. Luigi no, lui aveva
i cavalli per lavorare.
I giorni seguenti sono stati un continuo avvicinamento a questa
famiglia. I motociclisti hanno qualcosa di molto simile allo spirito
cavalleresco. Loro hanno quello spirito, tutti dal primo
all’ultimo e Luigi guarda e comprende le nuove generazioni.
L’ultimo giorno sono andati in moto a mettermi i segnali per
arrivare fino a Tirano mentre Daniel metteva finalmente i ferri nuovi a
Isotta.
Daniel è arrivato con il suo furgone e tutta la famiglia era
lì riunita per vedere questo artigiano che si prendeva cura
della nostra progressione. Credo che a un certo punto ci fossero una
decina di persone lì intorno a guardare ma tutto era talmente
discreto e rispettoso che era come se ci fossimo solo noi. Lui ha fatto
un lavoro egregio e ferrare un cavallo che ha perso mezzo piede da una
parte e tutto il bordo del piede da un’altra non è una
cosa da poco.
Possiamo andare avanti diritte.
Lago di Poschiavo, sei luglio duemilasedici
Siamo filate via lisce seguendo i segnali di Luciano e Roberto, la
strada sconosciuta messa in chiaro. L’ultimo segnale l’ho
intrecciato alla criniera di Isotta, loro in qualche modo vengono con
noi.
Quando ci siamo salutati ieri sera,
Luigi mi ha dato un pezzo di formaggio e mi ha detto.
– Se avessi un cavallo e fossi ancora abbastanza forte, ti accompagnerei al colle.
Daniel Cattaneo, uno dei migliori maniscalchi di Italia, è
salito da Brescia a Edolo per ferrare Isotta. Luigi non si è
perso un movimento e non ha detto una parola. Questa è la famosa
tettoia a forma di tettoia.
IL PASSO DEL BALDISCIO
Come scegliere dove passare in un’itinerario così lungo
attraverso un territorio così bello, è un’impresa.
– La priorità è la condizione dei sentieri che dev’essere accettabile per il transito di quadrupedi.
– Il tracciato generale non può avere troppe deviazioni, altrimenti non si avanza.
– Ci sono ostacoli e vie agevolate di cui è meglio tenere
conto per andare avanti nella maniera più sensata possibile.
Mappa: rappresentazione verosimile di un territorio in scala che
permette di farsene un’idea senza conoscerlo per prevedere in
anticipo la via da seguire o trovare alternative quando vi si
incontrino ostacoli imprevisti.
– Fiumi: percorrendone il corso si procede per lunghe distanze
con il minimo dislivello. Per attraversarli occorre prevedere
già da lontano ponti o guadi per puntare lì senza grandi
giri a vuoto sulla sponda sbagliata.
– Montagne: isolate si possono aggirare, in catena possono essere attraversate o percorse nella direzione delle valli.
L’acqua è sempre collegata alla strada: la modella, la
ostacola, la innaffia. Forse anche lei cammina. Non si preoccupa dei
dislivelli, quando ci sono li riempie.
Può succedere che sulla mappa siano segnati ponti che non
esistono più o ne manchino di costruiti recentemente.
L’unico modo per accertarsi della realtà è
interpellare le persone del posto e camminarci sopra.
Monte Spluga, tredici luglio duemilasedici.
L’altra sera il mio arrivo al lago coincideva esattamente con
quello di un nuvolone nero come il catrame che, schiacciato dal vento,
ha iniziato a spremere gocce d’acqua che sembravano secchiate e
lame di aria che arrivavano da tutte le parti.
– Le Alpi? Ma da dove?
– Dalla Slovenia
– Santo cielo, ma è lontana!
– E da dove vieni oggi?
– Da Niemet
– Santo cielo, ma è lontano! E passi da qui? Proprio da Monte Spluga?
– Sì, qui siamo proprio a metà delle Alpi.
La signora Lorenza mi aveva detto che se mi accampavo al riparo del
muro di casa loro non c’era problema e io avevo cominciato a
montare il telo sotto quella sequenza di secchiate che riuscivano a
cadere persino all’insù, tale era la forza del vento.
Isotta l’ho lasciata carica per tenere il materiale al riparo della termoriflettente finchè non era pronto il telo.
Prima volta. Sto per slegare il cilindro. Folata di bufera. Hop! Il telo sbatte come una bandiera impazzita.
Lego di nuovo la termoriflettente, vuole volare pure lei. Recupero il telo, manca un picchetto. Poteva andare peggio.
Seconda volta con un picchetto in meno un po’ più in
là, forse era il posto sbagliato. Sto per slegare lo stesso
cilindro di prima. Folata di bufera. Hop!! Il telo sbatte come una
bandiera impazzita.
Lego di nuovo la termoriflettente. Manca un altro picchetto. Poteva andare peggio.
Ormai io sono da strizzare. Cerco di tenere in salvo il materiale sulla sella e riprovo dall’altra parte della casa.
Terza volta. Questa volta sta in piedi. È talmente basso che assomiglia a una tovaglia. Tolgo davvero i cilindri.
Mentre sto trafficando, arrivano il signor Marco e i ragazzi con cui
lavora. Lui è un uomo forte con una bella barba e indossa una
giacca militare di goretex dall’aria calda e asciutta. Ha finito
di mungere un momento fa. Da dove si trovavano, mi vedevano tribolare
ma erano troppo lontani per dirmi di cambiare piani.
La stalla sarebbe il suo piano.
Ci stringiamo per starci tutti, gli animali che sono già lì, Isotta ed io.
Stendo ogni cosa tutto dove c’è qualche appiglio. È
tutto da strizzare. Visto che mi ostino a non voler dormire nella
camera vuota che c'è al piano di sopra, Marco sale senza dire
niente e torna con un materasso e delle coperte.
- No grazie, per me va bene qui.
- Ma come fai a dormire sul cemento?
- Basta avere sonno!
Mentre mi guarda trafficare mi chiede come penso di proseguire il viaggio.
– Domani passo di Spluga, scendere a Splügen in Svizzera,
costeggiare il Reno fino all’attacco del passo di San Bernardino
per discendere alla Val Moesa.
– Non ha proprio senso quello che vuoi fare. È
lunghissima, devi scendere tantissimo e poi risalire e la strada non
è per niente bella. Sali al passo del Baldiscio, sono pascoli su
pascoli e dall’altra parte ancora pascoli e ti ritrovi
direttamente a Pian San Giacomo.
Guardo la cartina, Monte Spluga 1900 metri, Isola 1200 metri, passo del
Baldiscio 2300 metri e oltre il passo un concentrato di curve di
dislivello che non promette niente di buono.
L’avevo guardato e riguardato questo pezzo di Alpi prima di
partire. L’unico passaggio sensato mi sembrava lo Spluga. Il
signor Marco è così convinto e convincente che non ci sia
strada migliore che decido di dargli retta. Domani scendo a Isola.
La pista per scendere è un sogno. Una di quelle piste dove si
dimentica tutto. Scende dolcemente tra pascoli ricchi di erba e fontane
su una bella cresta a cavallo tra due valloni. Sembra di volare.
Ho chiesto a sei persone oltre al signor Marco delucidazioni su questo
sentiero che dalla carta non sembra molto equitabile e tutti hanno
descritto verdi pascoli e morbide praterie.
Siamo scese molto ma la strada è buona.
Siamo salite molto da un sentiero pessimo.
Giunte alla frazione di Borghetto a un tiro di schioppo dal colle,
c’è un signore che nutre molti dubbi sul fatto che dal
Baldiscio si possa scendere a cavallo.
Ormai sono qui. Monto il telo anche se è una sera bellissima.
Mattina di vento e di sole.
Ormai sono qui.
Salgo al colle, bellissimo.
Scendo dal colle, bellissimo. Vedo là davanti la prateria che
salta nel vuoto. Arrivo alla fine dell’ultimo pascolo: il
bel fiume che lo attraversa sinuoso si trasforma in cascata e il bel
prato in un muro di pietre.
Ok.
Tutte le persone che mi hanno descritto questi bei pascoli non ci
hanno mai camminato fino in fondo. Abbiamo visto un bel posto. Possiamo
tornare indietro.
C’è il sole. Temporali che si spostano nella valle
lasciano al loro passaggio strisce di bianco lucente e grandine.
Arrivano anche da noi e non ci lasciano più fino a Monte Spluga.
Prima di entrare in paese mi affianca un’auto, a bordo c’è il signor Marco.
– Non ci sei andata al Baldiscio con questo tempo!
Si fa beffe di me e riesce pure a farmi ridere in mezzo a tutto questo gelo di neve fradicia.
– Facciamo che torno a dormire una notte nella vostra stalla?
Lui non riusciva a credere che non si potesse passare di là
neanche dopo tutto il racconto della giornata. Quando sono arrivata a
San Giacomo, ho chiesto se qualcuno conosceva il passo del Baldiscio,
ho dovuto chiedere a diverse persone prima di trovare una guida alpina
che era al corrente di un passaggio per la Val Chiavenna in quel punto
e mi ha mostrato le cascate e le rocce da cui sarei dovuta
teoricamente scendere.
Il passo del Baldiscio era l’autostrada dei contrabbandieri che
integravano la magra vita di quei ripidi versanti acquistando in
Svizzera cose che in Italia costavano di più e portandoci altre
cose che costavano meno. Per anni è stato la sopravvivenza per
molte famiglie.
Uno zio del signor Marco che era un bel ragazzo in piena forma e vigore
aveva deciso di passare in una notte in cui cominciava la tormenta.
Erano in due con un bel carico sulla schiena. Hanno incontrato altri
contrabbandieri che scendevano e sconsigliavano l’impresa. Hanno
sopravvalutato le loro forze. Li hanno trovati giorni dopo. Il mondo
era congelato, loro anche: erano seduti su un muretto di pietra. Lo
zaino sulla schiena, sorretti dal bastone.
Le guardie di frontiera hanno sempre chiuso un occhio su questi
traffici. Facilmente arrivavano da famiglie che erano sopravvissute in
quel modo da sempre. Solo durante la guerra questi traffici sono stati
fonte di tragedie: guardie venivano da lontano e era stato
imposto di sbarrare completamente la frontiera. Dovevano tirare! In
Svizzera in quel periodo si erano rifugiate molte persone che avevano
le famiglie ancora al di qua della frontiera e oltre ai contrabbandieri
passavano anche semplici doni per chi di là non aveva niente.
Sono morte delle persone.
– Domani passo di Spluga, scendere a Splügen in Svizzera,
costeggiare il Reno fino all’attacco del passo di San Bernardino
per discendere alla Val Moesa.
GANA BUBAIRA
Lo svizzero era arrivato fino a Giaveno diverse volte, un giorno con un
suo amico straordinario, una volta con suo figlio, sempre con un
sorriso e una serenità rari. Il suo nome è Giuseppe,
è sempre andato a cavallo, ha lavorato per degli anni in
alpeggio e lì ha imparato un mestiere e un linguaggio: quello di
chi lega la sua vita agli animali e alle montagne.
Nel mese di luglio di ogni anno passa una settimana nella capanna di un
pastore che raggiunge quel pascolo con le manze solo ad agosto. La
capanna è in mezzo a una pietraia ed è grande come le
pecore che le pascolano intorno in ogni stagione. Il suo nome è
Gana Bubaira e l'acqua che scorre al suo fianco arriva dal Passo del
Sole e scende nel Reno.
Sono arrivata proprio lì, proprio in quella settimana. Lui ed
Isabella mi sono venuti incontro per accompagnarmici attraverso valloni
poco battuti. Il pomeriggio era ancora lungo e mentre facevo il bucato,
mettevo in ordine l'equipaggiamento e guardavamo come si comportavano i
cavalli in libertà, le montagne intorno sembravano risuonare di
luce. Quella notte vicina a quella pietra a monte della capanna
è stata come se tutta la strada che
avevamo percorso e quella che avevamo da percorrere vorticassero
intorno a quell'angolo di mondo.
I LUPI ARRIVANO DA SUD
I lupi arrivano da sud. Scendono dalla Nufenen in pieno inverno, quando
la neve è gelata e la luna gli illumina la pista. Di giorno,
quando la neve diventa morbida, si trovano un posto asciutto, si
accucciano lì e dormono aspettando il gelo.
A febbraio lassù è un’autostrada per loro. Nessuna
pietra che taglia i polpastrelli, la luce della luna diventa un faro e
non c’è nessuno tranne loro e il vento.
Anche adesso lassù i nevai conservano un po’ di inverno.
Il terreno è irto di pietre e tra l’una e l’altra
è facile incontrare ‘sagne ‘.
2016 07 19
Pfaffenegge
Yvonne Vênetz
Scesa dal Nufenen Pass, cercavo un posto per fermarmi e la pietanza per
Isotta. Il colle spettacolare, la valle davanti, il primo villaggio
walser. Cammina. Cammina nella luce abbagliante, siamo arrivate qui. Mi
aspettavo un ranch. Chi mi ha indicato questo posto, lo ha chiamato
così. Un recinto, una tettoia di solidi tronchi, un’altra,
una terza che tiene al riparo da foglie e gelo la fontana. Lì,
tra alberi e tettoie c’è un tavolo con un mucchio di fiori
di iperico e due barattoli già pieni di fiori immersi
nell’olio. Dietro quel mucchio di fiori, Yvonne che continuava a
dividerli dalle foglie: i fiori in un panno sul tavolo e le foglie in uno
scatolone a terram tra lei e il tavolo.
Non so come si scriva, da noi si chiama ‘truc a ram’, si fa
con i fiori di iperico immersi in olio di oliva in barattoli che
vengono esposti al sole ogni volta che c’è per un paio di
mesi. Si usa per nutrire la pelle dopo escoriazioni e scottature. Tutto il sole dei fiori
finisce nell’olio e fa guarire.
Lei indossava una gonna a fiori e una maglietta a maniche corte, i
capelli sciolti e un’aria così pacifica che sembrava che
Isotta ed io non fossimo nel quadro.
Bevo il succo di frutta e mangio una fetta di torta di albicocche,
intanto Yvonne continua con i fiori. Oggi era l’ultimo giorno di
fieno, è tutto ritirato ed è venuto bellissimo.
Preparo un riso con gli ultimi funghi secchi e il mucchio di fiori è sempre più alto.
- Sono arrivata nel posto giusto? - Sì. Vuoi del succo di
frutta? - Grazie! Ma prima è meglio se scarico la cavalla.
Un posto di cavalli senza cavalli, fiori dappertutto e un piccolo orto,
le casette delle api lì dietro. Mi sistemo vicino a un albero
morto in un punto del prato da cui si vede tutto e dove si capisce che
i cavalli amano stare. Isotta butta la testa nell'erba e si distrae
solo a tratti per capire di chi sono tutti quegli odori. Quando ha sete
va alla fontana, quando si vuole grattare la schiena, si rotola.
Yvonne ha lavorato per trent’anni in alpeggio, d’inverno
guarda una ventina di cavalli qui e d’estate è sempre
salita in montagna con mucche di altri allevatori che guardava e mungeva. È
anche casara.
È il primo anno che non sale, è rimasta qui con le sue
api e si occupa di loro mentre i suoi cavalli sono andati
all’alpe con altri che, oltre a custodirli, li utilizzano per i
trasporti.
– E hai avuto problemi con i lupi?
– No, nella valle da dove vengo ci sono da almeno quindici anni e
girano proprio dove giro io. Non li ho mai visti, solo sentiti. Non
credo che quelli che vivono qui si comportino in maniera diversa. Ma
qui ci sono lupi?
– No, adesso non ci sono, scendono solo in inverno e non sempre.
Un anno arrivano, stanno per un po’, poi se ne vanno o vengono
uccisi. Non durano molto.
– Tu hai avuto problemi con i lupi su in alpeggio?
– No, in alpeggio non li ho neanche mai visti. Li ho visti qui.
Uno l’ho trovato morto nel fosso prima del cancello, ma è
stato tanto tempo fa. L’altro era vivo, così vivo che ha
ucciso un capriolo sotto i miei occhi. Sono scesi giù in corsa
dalla montagna, il lupo lo ha raggiunto e in un solo morso gli ha
spezzato l’osso del collo e tagliato la gola. Un professionista.
– Era un maschio o una femmina?
– Non lo so.
Mentre mi diceva queste cose, si è messa a frugare negli armadi
cercando qualcosa e ha tirato fuori una busta di carta bianca con le
foto del capriolo abbandonato nella neve, della testa con il collo
spezzato e della ferita sul collo. In un foglio di carta bianco piegato
in sei, c’era un ciuffo di peli ruvidi e grigi.
– Lupo
Silenzio, raduna le foto e il ciuffo di peli nella busta.
– In India la giungla è sempre più piccola, la
gente è sempre di più. Ci sono così tanti uomini e
così tanti animali domestici che il selvatico è relegato
in uno spazio sempre più ristretto. La priorità è
salvaguardare gli uomini e il loro bestiame. La tigre non sa più
dove andare, le poche che sopravvivono si trovano uno spazio al di
là della civilizzazione, la conoscono, la evitano e cercano di
sopravviverle.
– In Africa anche, ci sono sempre più persone e la vita
per i grandi carnivori è sempre più difficile ma ci sono.
Ogni mattina i watussi liberano il bestiame e ogni sera lo radunano in
recinti vicino alle case.
– Qui l’ultimo lupo si era visto più di cento anni
fa e allora si faceva così anche qui. Come adesso, anche allora
ogni famiglia aveva pochi animali. Quando era ora che salissero in
alpeggio, li si radunava e un pastore, pagato da tutte le famiglie di
cui guardava gli animali, passava l’estate a custodirli. Adesso,
dopo la lunga assenza dei grandi carnivori, queste persone si sono
abituate a lasciare gli animali incustoditi. Non sono gli allevatori
professionisti a risentire del ritorno del lupo e dell’orso, sono
questi piccoli proprietari che svolgono tutt’altro mestiere e
vivono in città, hanno alcuni animali e li lasciano a guardarsi
da soli per tenere puliti piccoli fondi e non abbandonare una
tradizione famigliare, senza contare i contributi che ricevono senza il
minimo impegno.
– Gli animali domestici hanno bisogno di essere custoditi, non sono in grado di cavarsela da soli.
Il lupo lo ha visto, ai suoi animali non è successo niente.
– Qualche anno fa in questa valle si era fermato un lupo che ha fatto molti danni
sul bestiame. La richiesta di abbattimento era stata accettata e i
cacciatori si sono messi di impegno per scovarlo. Li trovavi acquattati
nei posti più impensati bardati di tutto punto. Quel lupo non si
è fatto trovare, se n’è andato altrove. Niente
trofei.
– Forse basterebbe ostacolarlo per tenerlo lontano dal bestiame.
È un animale intelligente e se viene disturbato va a cercare un
posto dove nessuno lo disturberà.
STORIA DI UN LUOGO DI PASSAGGIO. COLLE DEL PICCOLO SAN BERNARDO
La strada che porta qui è romana: canali di scolo
dell’acqua, ponti che oltrepassano antichi rii e nevai, un
selciato inconfondibile con canaline e pendenze adeguate al passaggio
dei carri. Le Alpi sono sempre una barriera e una protezione, passare
di là per commerciare e combattere: un punto critico. Il colle
del piccolo San Bernardo è circondato da montagne bellissime e
altissime ma non è molto alto. Si arriva in quota in un attimo e
prima di scendere in Francia si rimane ancora stregati dal ghiaccio che
pende dal Monte Bianco. Un lago, un pugno di edifici che accolgono i
passanti, i resti dell’antica posta romana, le pietre del
Cromlech dei salassi e il giardino botanico sono le tappe che
raccontano al passante la storia densa di avvenimenti e sguardi che si
sono succeduti quassù. In fondo, prima di saltare giù
verso la Francia, c’è l’Ospizio.
Il lago è la prima perla, rispecchia le montagne circostanti e fa sognare solitudini senza peso.
Il pugno di case accoglie e ristora, si riconosce la vecchia dogana.
Per secoli Il confine tra Italia e Francia si è spostato un
po’ in qua e un po’ in là guadagnando e perdendo
ogni volta pochi metri che erano sempre semplicemente pochi metri e
ogni volta erano debiti e doni inestimabili. È strana
l’idea di frontiera. È una linea per cui generazioni e
generazioni di amici hanno combattuto. È un segno teorico con
valenze pratiche tangibili tuttora. Ogni volta che passò un
confine mi sento di entrare in un altro mondo. A volte cambia la
lingua, certe volte anche la moneta, gli uomini sono sempre gli stessi
Gentili e accoglienti o vigliacchi e ostili da tutte e due le parti di
quella stessa riga. Il cuore non ha frontiere.
Le rovine della città romana al culmine del colle rendono
arcaico il pensiero di passi stranieri che per secoli si sono spinti
anquest’altezza per entrare in terra straniera. Già allora
salire da una terra conosciuta e scendere in un’altra dove si
parlava un’altra lingua e si incontrava altra gente, doveva
essere un momento di nodo alla gola. Lì c’era sicuramente
una locanda e anche una stazione di posta per cambiare i cavalli cotti
dalla salita e scendere con cavalli freschi pronti a resistere al peso
dei freni. Secoli di passi, rumore di zoccoli sulla strada. Quando
supero questi angoli di mondo e sento il rumore dei ferri di Isotta
sulle pietre, mi sembra che il tramonto trasporti un eco lontana,
pesante come una macchina del tempo.
I salassi, l’antica popolazione che abitava la Valle
d’Aosta, avevano sempre usato questo colle per scendere in
Tarantaise e commerciare. Per loro il valore del confine era la fatica
di salire e la strada da percorrere, come per tutti quelli che erano
passati prima e sarebbero passati dopo. All’epoca non si pensava
di compiere azioni senza dio e i loro dei venivano ringraziati e
implorati ogni volta che la fortuna gli permetteva di superare il colle
e portare a buon fine le imprese che avevano in mente. Resta in memoria
di quell’epoca così lontana, il contorno di un cerchio di
pietre che per secoli è stato luogo di culto e per altri secoli,
luogo di razzia. Un Cromlech al cui centro era innalzato un dolmen era
il tempio, per costruire la strada attuale il dolmen è stato
distrutto e ogni volta che serviva una pietra, qualcuno l’ha
presa nel cerchio del perimetro. Resta ben poco, affiora in mezzo al
l’erba come tutte le storie che finiscono. La terra riprende ogni
volta un suo ordine, ritorna pascolo di camosci.
Nel 1897 è nato il giardino botanico Chanousia, per
volontà e passione dell’abate Chanoux dell’ordine
mauriziano che gestiva all’epoca l’Ospizio. Da anni
l’abate coltivava specie alpine in aiuole che gli sembravano
necessarie per far conoscere e amare questo mondo prima che si
estinguesse. Le specie coltivate nel giardino sono più di 1200 e
chi si ferma a visitarlo, viene accompagnato a scoprire quelle fiorite
al momento della visita. Gli ambienti raccontati dal giardino e la
breve stagione vegetativa di qualsiasi pianta a quella quota rendono
ogni fiore un tesoro unico e prezioso.
La piana del colle culmina all’Ospizio. I pellegrini della via
franchigie a vengono accolti qui da altri secoli. L’edificio
è alto e stretto e dall’ultimo piano sembra di essere in
aereo. Il gestore è una persona molto gentile, ha un cane da
ricerca in valanga, un cane di San Bernardo che quando sono passata
aveva solo quattro mesi e che per lui è solo un animale da
compagnia. Cercavo pietanza per Isotta, come ogni giorno dovevo
risolvere questa esigenza. Lui si è diretto in cucina, è
tornato con un sacco di carta che conteneva almeno quattro chili di
farina di polenta e non ha voluto niente. Ho infilato tutto nelle
musette e mi sono avviata incontro al tramonto tra pascoli e greggi.
Andavo con il pensiero a tutti gli angoli del colle appena passato che
in quanto colle è un luogo di passaggio ma mi è sembrato
un posto in cui avrei dovuto fermarmi.
LA STRADA DELL'ASSIETTA
Un mio caro amico siciliano dice che a Torino il vento parla francese.
Mi trovo sullo spartiacque tra Val di Susa e Val Chisone. Una lama di
rocce e pascoli che divide e collega i versanti di due valli molto
lunghe. Su questa cresta c’è una strada che è stata
costruita dai soldati. Da qui passava la vecchia frontiera tra il regno
dei Savoia e il Delfinato. Passare di qui senza sentire le voci della
battaglia dell’Assietta in cui i montanari hanno difeso con
pietre e forconi le pianure sottostanti è impossibile.
Raggiunto il Gran Serin guardo verso i ghiacciai degli Ecrins e la
cresta che si snoda verso l’orizzonte. L’erba ha sete e
ingiallisce. Le pietre delle fortificazioni raccontano storie su ogni
cima e danno asilo al viaggiatore. Tanta bellezza e questa cavalla
insieme a me. Lei è abitudinaria. Lo sa che dopo il lago
c’è una strada tutta per noi con erba e ombra. Prende la
direzione senza che io debba dirle niente e si ferma esattamente dove
si ferma sempre. La scarico e la lascio pascolare. Dopo tante montagne
sconosciute e bellissime è così strano passare su una
strada già percorsa tante volte. La Val di Susa è la
valle di casa nostra, fa parte delle Alpi ed è uno dei territori
alpini con la maggior concentrazione di branchi di lupi. Dovevamo
passare da qui. Qui dove ci troviamo, c’erano i francesi. Sono
arrivati un giorno in gran forza per conquistare Torino. La gente dei
villaggi e i più disparati eserciti di mercenari hanno fermato
la loro avanzata in mezzo a queste montagne. Era tanti anni fa, adesso
questa strada mi porterà proprio fino in Francia.
Erano posti da soldati. Materiali e vettovagliamenti sono arrivati qui
a spalle e a dorso di mulo. È un posto da animali e gli animali
lasciano segnali che gli uomini non sono in grado di riconoscere ma
Isotta e quelli come lei sì. Lei lo sa che adesso qui non
c’è la guerra e pascola tranquilla dove pascolavano muli e
cavalli tanti anni fa.
GIARDINO BOTANICO PEYRONEL
Il colle del Barant è una fessura sulla vecchia strada militare
che collega la Comba dei Carbonieri alla Conca del Prà. Al
culmine della salita ci si ritrova tra due pareti di roccia viva
spaccata a pala e picco dai soldati di leva, davanti c'è la cima
del Monviso che occupa tutto lo spazio non riservato al cielo. Prima di
passare di là conviene fermarsi alla stazione botanica Peyronel.
Chiara
gestisce i turni dei volontari. È arrivata per la prima volta
qui in visita ad un amico che era di turno, l'anno dopo ha cominciato
anche lei è di anno in anno le sue cure per questo posto l'hanno
coinvolta sempre di più. L'ultimo anno ha partecipato a scrivere
un progetto per ottenere finanziamenti da destinare alla manutenzione e
alla comunicazione che è andato a buon fine. Tra stesura di
volantini, recinti da montare e smontare, rifornimento di alimenti e
combustibile per i volontari, la stagione vola in un attimo e non
è più riuscita a mettersi nei turni, anche per lasciare
spazio ai ragazzi sempre più numerosi che fanno richiesta di
provare quest'esperienza. È salita apposta per incontrare Isotta
e me quassù e ha dormito sotto il telo con una semplice coperta
sorprendendosi di aver trascorso una bella notte all'asciutto sotto una
pioggia di stelle cadenti.
Da venticinque anni, una postazione militare in disuso a picco di
fronte al colle della Croce ospita per tutta l'estate i volontari del
Giardino. Sono ragazzi di Scienze Forestali e Naturali e appassionati
di botanica che passano in questo nido d'aquila una o più
settimane della loro estate. L'area in cui lavorano determinando le
piante che nella stagione fioriscono e appassiscono è delimitata
da un recinto che impedisce l'ingresso delle mucche fino a settembre,
sono loro a concimare questo spazio dopo l'ultima fioritura. I
volontari sono a disposizione del pubblico e accompagnano gli
escursionisti per fargli scoprire le identità che popolano
quest'area. La questione non è il nome della singola pianta,
ascoltandoli si scoprono la tenacia e la personalità di piante
più o meno appariscenti in grado di affrontare la durezza di
queste rocce e di questo clima.
Il perimetro della stazione botanica include un'area precisa che non
può essere altrove: in meno di due ettari sono presenti ambienti
molto diversi e rappresentativi in cui nascono, vivono e vegetano oltre
300 specie alpine spontanee, indice di elevata biodiversità.
A monte del giardino si trova l'unica sorgente a distanza di ore
di cammino, che butta acqua per tutto l'anno anche in un'estate come
quella appena passata. La prima volta che mi ero accampata lì il
richiamo era stato proprio l'acqua che alimenta un piccolo laghetto
dove Isotta aveva potuto bere. La zona umida lì intorno e a lato
dei ruscelli che attraversano il giardino è caratterizzata da
una vegetazione particolare diversa dagli altri posti. La pianta
più evidente che approfitta dell'acqua nel terreno è
l'erioforo che, con le radici a mollo, appoggia al vento i suoi fiori
candidi dalla consistenza simile al cotone.
L'ambiente tipico di questo versante è quello delle creste
ventose e infatti dove non arriva l'acqua si trovano piante tutte
diverse, quelle che se la cavano in terreni aridi e spaccano le rocce
con le loro radici per trovare ancoraggio contro i forti venti che
soffiano su questo promontorio, guardando i loro fiori delicati sembra
impossibile immaginare la forza delle loro radici che può far
invidia al più potente degli escavatori.
A questa quota, negli avvallamenti poco esposti dei versanti
settentrionali, la neve può coprire il terreno anche per nove
mesi all'anno. Sono le vallette nivali dove sopravvivono solo quelle
piante in grado di compiere il loro ciclo vegetativo nella breve estate
che hanno a disposizione. Il lungo assedio della neve concede il favore
di un'elevata umidità del terreno anche dopo lo scioglimento e
queste specie dell'ombra e del gelo ne possono approfittare,
contrariamente a quelle delle creste.
Il fiore simbolo del giardino è la Dryas octopetala, un relitto
artico che cresce solo sulle rocce calcaree che affiorano tra gli
scisti in una piccola parte del giardino. Fiore candido e foglie
seghettate note come thè delle Alpi perché una volta
essiccate possono essere utilizzate come infuso.
La specie più rappresentata nel giardino è il salice, se
ne incontrano ben otto specie. Data la quota e l'esposizione agli
eventi atmosferici e al pascolamento, questi alberi hanno un portamento
prostrato e la loro altezza supera raramente quella delle graminacee
circostanti. Eppure sono proprio alberi: un Salix erbacea con il tronco
del diametro di sette millimetri può avere anche quarant'anni!
Sono piante pioniere in grado di colonizzare gli ambienti più
estremi, una volta che le loro radici hanno sbriciolato le rocce e le
loro foglie cadute sono marcite aggiungendo sostanza organica, possono
arrivare altre specie.
Intorno a queste isole caratteristiche di ambienti tutti diversi
c'è un mare d'erba che le lambisce da ogni lato: è la
prateria alpina di cui approfittano le mucche dell'alpeggio della conca
del Prà una volta terminati i turni di volontari. La Toma che ne
viene fuori è inevitabilmente sopraffina!
la
quiete- la prima volta che sono arrivata qui era il 2007, a Isotta
questo posto è piaciuto tantissimo, pascolava, andava ad
abbeverarsi al laghetto e riposava. ogni volta che sono tornata qui
è stato così.
Non c'è niente di appariscente tranne i fiori. Non si sente
altro rumore oltre all'acqua che scorre e al vento che si infila tra le
rocce. Non c'è un riparo se non l'antico baraccamento riadattato
per ospitare i volontari. Non si riesce ad andare via da qui.
FREMAMORTA: L'ULTIMO COLLE
ventisette agosto: dal Boreon si arriva con una strada militare larga e
sicura fino al primo lago di Fremamorte. I primi raggi di sole ci
stavano cadendo addosso e l'erba rigogliosa intorno al lago interessava
Isotta. mi sono fermata e ho cominciato a fermentare. Oltre quella
montagna c'è la meta.
Eravamo talmente abituate a questo ritmo
che mi accorgo solo adesso del suo limite. comincio a fermentare.
Riparto come se fossi appena stata travolta da una valanga. La bellezza
intorno è ancora più travolgente. Un sorriso ebete mi si
incolla alla faccia mentre mi riempio di tutto quello che mi circonda
come se la fine di questo viaggio fosse la fine di tutto. Raggiunto il
colle non riesco a passare di là, c'è un po' d'erba in un
rettangolo in piano e lo spettacolo sul Mercantour è mozzafiato.
Ho paura di scendere. Mi sono fermata di nuovo. Isotta non mangia. Sta
lì in piedi immobile sopra di me. Non c'è nessuno e
passano solo stambecchi.
Faccio finta di dormire per avere una scusa
per non andarmene di qui. Non ci sono scuse. Lì sotto c'è
la piana del Valasco e la strada che porta lì è
bellissima. Riparto sui sentieri che Vittorio Emanuele si era fatto
costruire per poter arrivare fin quassù in sella nella sua
riserva di caccia. Ad ogni passo quel cielo blu e quella bellezza mi
feriscono quasi. Ho raggiunto la Piana del Valasco completamente
stravolta. Vorrei che non ci fosse nessuno e invece il pianoro è
pieno di gente.
Il viaggio è finito.
Il mattino dopo ho capito. Negli ultimi 15km per raggiungere il Centro
Uomini e Lupi di Entracque, il confine tra viaggio e non viaggio era
nell'aria. un'avventura come questa deve finire: il suo valore è
nei suoi limiti, se fosse per sempre non sarebbe così preziosa.
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