I
tedeschi trovarono nella campagna di Russia questi naturali alleati
guidati dall'atamano Krasnoff eletto dall'assemblea cosacca nel 1917.
Dopo Stalingrado la Wehrmacht iniziò la ritirata ed i
cosacchi
si ritirano con loro; tra i fuggiaschi c'erano molto civili;
soprattutto famiglie dei cosacchi del Don, del Terek e del Kuban.
Si muovevano, a differenza dei tedeschi, con i cavalli a modo di orda,
tirandosi dietro le cose che potevano caricare sui carri.
Andrej Škuro Atamano dei
cosacchi del Kuban, coraggioso e audace, era il Forrest
dell’Armata Bianca, specializzato nelle scorrerie, memorabile
quella del 1920 che portò la sua Divisione per oltre 1000 km
in territorio nemico, alla fine della guerra civile visse in esilio a
Parigi insegnando equitazione, fu chiamato nel 1941 dai tedeschi per
organizzare i cosacchi integrati nella Wermact, combattè con
i tedeschi fino alla fine.
questo video è autentico nelle immagini appaiono
l’Atamano Krasnoff , il Generale Helmuth von
Pannwitz, il Generale Andrej Shkuro e insieme a loro si
vedono i volti dell’armata a cavallo cosacca, facendo
attenzione si possono notare da particolari apparentemente
insignificanti l’intimo rapporto che questi soldati avevano
con i loro cavalli, sempre costantemente presenti. I Cosacchi
più che soldati erano guerrieri a cavallo, essi nascevano
così come si vede nei giovanissimi.
Molti tra i vincitori pensano che siano traditori dell’Unione
Sovietica , erano l’opposto: fedeli incrollabili ai principi
della vecchia Russia, per loro la guerra era la continuazione di quella
civile. Condannarli per questo motivo sarebbe come condannare il
Generale Lee o Jeb. Stuart o Forrest per aver combattuto con il Sud.
Ovvio che tra loro e i Comunisti non correva buon sangue ovvio che
Stalin volesse eliminarli in quanto potevano continuare a covare
risentimento verso i Sovietici, forse i Britannici potevano fare in
modo di non consegnarli evitando il suicidio collettivo. Agli alleati
non potevano far alcun male anzi, ma anche loro avevano la grana di
sistemare in qualche modo l’Armata Polacca del grande Anders,
quelli non avrebbero potuto rimpatriarli pena anche il loro
sterminio.
Dopo
averli messi a soggiornare per qualche tempo in Polonia e in
Prussia orientale, il comando tedesco decise di impiegarli per
presidiare la Carnia proteggendo così la Pontebbana,
l'importante strada che collegava il litorale adriatico con Vienna ed
il centro Europa. I cavalieri cosacchi "sbarcarono" in Friuli nel mese
di agosto del 1944, convinti di poter creare con l'aiuto tedesco una
nuova patria, "Kosakenland in Nord-Italien", con le leggi e le
tradizioni che avevano in Russia quando erano ancora seminomadi, e
soprattutto lontano dalla repubblica di Stalin. Si trovarono davanti
una popolazione povera quasi quanto loro ma altrettanto fiera. Dopo il
primo traumatico impatto prevalse tra questi due popoli un comune buon
senso, che servì ad evitare ulteriori tragiche conseguenze
di un
conflitto poco utile e non tanto sensato.
Pëtr Nikolaevic Krasnov, traslitterato anche come
Krassnoff nato a San Pietroburgo, 22 settembre 1869
– Mosca, 17 gennaio 1947), è stato un generale e
scrittore russo, proveniente da un'antica famiglia cosacca del Don, di
cui fu Ataman dal 16 maggio 1918 al febbraio 1919.
Era figlio del maggiore-generale Nikolaï Ivanovich Krasnov e
fratello del geografo e botanico Andrej Krasnov e dello scrittore
Platon Krasnov.
Ecco come vissero il rapporto
alcune persone che abbiamo incontrato:
Santa Vidussoni - padrona dell'Hotel Stella d'oro di Villa Verzegnis,
ex quartier generale dell'atamano Krassnoff: «Ci prendevano
il
fieno per darlo ai loro cavalli e vivevano con quel poco che i tedeschi
riuscivano a dar loro. Avevano solo carri; il due maggio del '45 sono
partiti e la donna che aveva la casa piangeva dicendo: domani kaputt,
domani kaputt».
Roberto Marzona di Verzegnis: «Mangiavano, molto aglio e
cipolle,
cantavano bene e portavano cibo ai morti; dividevano le miserie con la
popolazione, davano dolci e zucchero ai bambini. Di notte montavano la
guardia e rinchiudevano i cavalli malati di rogna nel Stavolo, fuori
del villaggio e per terapia lo riempivano di fumo. Gregorio era un
cosacco dai capelli rossi che viveva con noi; quando dovette partire
mia madre gli dette della polenta calda lui la infilò tra la
giacca ed il cappotto andando via piangendo».
Gian Franco Colledani di Tolmezzo: «Ho imparato ad andare a
cavallo e ad amare i cavalli da loro; il cosacco che viveva da noi mi
lasciò la sua sella prima della ritirata; diceva che non gli
sarebbe mai più servita».
Daniele Peresson di Piano d'Arta: «Mi avevano preso due
vacche e
lasciato due cavalli e un carro cosacco, con il quale ho lavorato molto
dopo la guerra».
Evaldo Marzona di Tolmezzo: «Tutti i bambini andavano a
cavallo,
li prendevano di nascosto ai cosacchi così come si va a
rubare
le mele nel campo del vicino; mi ricordo una zuffa memorabile sul
sagrato della chiesa di Verzegnis tra bambini russi e friulani;
dispetti di bambini ed i cosacchi non intervennero mai nelle loro
risse. Una bambina era caduta dal primo piano, i primi a soccorrerla
erano stati i cosacchi che in seguito le avevano portato dei doni. Dopo
pochi mesi si dialogava tranquillamente con una lingua franca russo
friulana»
Infine la testimonianza di Don Giuliano de Grignis attualmente parroco
di Raveo, che nel 1944 era cappellano a Villa-Santina, sede della
scuola allievi ufficiali cosacchi. «Un grigio pomeriggio
d'inverno tre, quattro cavalli affamati stanno brucando quel po' di
erba secca e congelata che emerge nelle chiazze lasciate libere dalla
neve nella Vinadia, lungo il terrapieno della ferrovia. Un fischio
improvviso del treno mette in scompiglio il piccolo branco. Uno, il
più giovane e forse il più focoso, impaurito e
ribelle,
con passo di carica, fa un giro attraverso il pianoro, torna al
terrapieno, tenta d'attraversarlo e cozza violentemente contro il
treno. I padroni arrivano in tempo per metter fine agli spasimi della
bestia affrettandone la fine con alcuni colpi di fucile. Piangono,
imprecano, commentano e lo seppelliscono, con tanta fame che
c'è, integro all'ombra di un ciliegio, un po' discosto
dall'abitato. Con aria da contrabbando, nella notte, Onorato, un
ragazzetto sui 13-14 anni, con un paio di coetanei, scavando a lume di
luna, recuperano il prezioso relitto, se lo dividono in grossi quarti
che si portano trionfanti a casa. Per qualche settimana le cucine del
casolare odorano del profumo di buona carne arrostita.
Una sera, proprio quello che era stato il padrone del cavallo, entra in
casa di Onorato. Siede a tavola lui, Marcella, di qualche anno
maggiore, e l'anziana nonna Catin. Mamma è morta, papa
è
lontano. Al centro, un piatto colmo di polpette grosse, calde e
croccanti. Gentilmente la sorella invita il nuovo arrivato a sedere e a
servirsi di quanto il convento dispone.
Il cosacco non se lo fa ripetere una seconda volta. S'accomoda e
già pregusta la soddisfazione di un gustoso spuntino. Ma un
dubbio lo assale e, non volendo contravvenire alle avite consuetudini,
ansioso chiede: «Cagnaca o carova?» È
cavallo o
vacca? All'unisono i due fratelli rispondono: «Carova,
carova». Non attendeva altro. Con gesto di soddisfazione,
appuntisce le estremità dei due robusti baffi comprimendoli
tra
i pollici e gli indici e si serve con non modesta abbondanza.
Trascinando la sua gamba semiparalizzata, zio Gino s'affaccia alla
porta e, fingendo una faccia da scandalizzato, con aria di rimprovero,
gli dice: «Tu mangiare cagnaca?!» Il cosacco:
«Marcella detto carova». Ribattè:
«No,
cagnaca». Levandosi in piedi e accarezzandosi piacevolmente
con
le due palme aperte delle mani la pancia tondeggiante, con un sorriso
di soddisfazione, conclude: «O cagnaca o carova jes
gut».
Poi siede ancora. Tira più vicino il piatto delle polpette e
riprende avidamente a far lavorare le mascelle fin quando il fondo
riesce del tutto pulito.