SOMMARIO

Anno IX
Numero 2
Giugno 2017

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La guerra che non c'è

di Carlo De Risio
1939 La guerra non dichiarata fra sovietici e giapponesi

Khalkhin

Nell'estate del 1939, mentre l'attenzione mondiale era polarizzata dalla crisi tedesco-polacca per Danzica, culminata con l'inizio del secondo conflitto mondiale, una guerra non dichiarata scoppiò tra il Giappone e l'Unione Sovietica. Per quattro mesi, da maggio a settembre, l'armata giapponese del Kwangtung e alcune divisioni scelte dell'Armata Rossa si affrontarono al confine tra la Mongolia Esterna, repubblica popolare autonoma legata all'URSS, e il Manciukuò, stato-fantoccio creato dal Giappone, dopo l'occupazione della Manciuria avvenuta nel 1931.
A Nomonhan si svolsero violenti e prolungati combattimenti che si trasformarono in una vera e propria battaglia campale alla quale presero parte anche divisioni mongole e manciukiane. Lo Stato Maggiore sovietico lanciò nella lotta massicce formazioni di carri armati, per cui il cosiddetto «incidente di Nomonhan» fece registrare il primo impiego nella storia di forze corazzate su vasta scala,anticipando la terribile dimostrazione data dalle Fanzerdivisionen di Hitler, dopo l'aggressione alla Polonia. I giapponesi subirono una secca sconfitta e persero più di cinquantamila uomini. L'armata del Kwangtung, priva di validi mezzi corazzati e di artiglieria anticarro, fu costretta a ritirarsi malconcia sulle posizioni di partenza. La lezione fu meditata e provocò una tardiva rivoluzione nell'armamento e nella dottrina militare dell'esercito nipponico, anche se, fino al 1945, i carri armati giapponesi si rivelarono piuttosto mediocri. Ancora più importanti risultarono le conseguenze politiche e strategiche di quella breve ma cruenta campagna. Se il Giappone prese risolutamente, di lì a due anni, la via dell'espansione verso sud e, soprattutto, se rinunciò ad affiancare la Germania nell'attacco all'Unione Sovietica, i motivi vanno ricercati anche nella imbarazzante prova generale fatta dall'esercito nipponico a Nomonhan. Perché il Giappone decise di saggiare le forze sovietiche in Estremo Oriente nel 1939? Quali informazioni erano in possesso dello Stato Maggiore di Tokio per indurlo a giocare una carta così arrischiata, tanto più che l'esercito era impegnato contro la Cina? (Le operazioni erano iniziate dopo il famoso «incidente» del 7 luglio 1937 al ponte Marco Polo di Pechino. Era, evidentemente, un sinistro vezzo dei giapponesi quello di definire «incidenti» conflitti di grandi dimensioni: la guerra con la Cina si sarebbe protratta senza esito per 8 anni). Tutto cominciò nel giugno del 1938, quando il generale sovietico Ljuskov disertò, consegnandosi all'armata del Kwangtung. Ljuskov era un personaggio importante. Alto ufficiale della GUGB, già Ghepeù, era incaricato della sicurezza delle frontiere sovietiche. In parole povere, il generale conosceva minutamente l'ordine di battaglia dell'Armata Rossa dall'Ucraina all'Estremo Oriente, la dislocazione delle riserve, i piani di emergenza, i cifrar! militari. Ljuskov aveva preparato con cura la sua fuga ed era riuscito perfino a mettere in salvo la famiglia in Europa prima di disertare. All'epoca della defezione di Ljuskov, l'Armata Rossa stava attraversando la crisi più acuta della sua costituzione. «L'affare Tukacevskij», cioè la «purga» staliniana nei ranghi dello Stato Maggiore dell'esercito (accusato di complottare contro il dittatore), aveva già fatto registrare una falcidia negli alti gradi. Davanti ai plotoni di esecuzione della GUGB erano finiti 13 dei 19 generali di Corpo d'Armata in servizio; 110 dei 135 generali di divisione e di brigata; più della metà dei comandanti di reggimento e anche molti commissari del popolo ritenuti infidi.
Eliminati anche il generale Berzin — «cervello» del IV Bureau, centrale informazioni dell'Armata Rossa — e il successore, generale Urickij. Berzin, prima di essere accusato di tradimento, aveva prestato servizio in Estremo Oriente. Ljuskov aveva visto cadere le teste di molti colleghi e conoscenti, dopo che l'ira e il sospetto del dittatore avevano colpito il vertice dell'Armata Rossa (soltanto a guerra finita si apprese che una parte delle prove contro il maresciallo Tukacevskij era stata «fabbricata» dal Servizio informativo politico all'estero delle SS, l'AMT-VI.
Il dossier era stato fatto pervenire a Stalin da Heydrich, attraverso il Servizio informazioni cecoslovacco. L'operazione aveva lo scopo di «decapitare» lo Stato Maggiore sovietico: obiettivo fallito di poco dai tedeschi).
Ljuskov, animato anche da risentimento personale e verosimilmente sottrattosi all'ulti¬mo momento al plotone di esecuzione, fornì ai giapponesi informazioni preziose, specificando la dislocazione e la consistenza delle forze sovietiche in Estremo Orien¬te: 25 divisioni, disseminate dalla Mongolia Esterna alla Provincia Marittima ed a Vladivostok. Il generale mise soprattutto l'accento sul malcontento che serpeggiava tra gli ufficiali dell'Armata Rossa e sull'esistenza di un forte gruppo di opposizione interna nella Mongolia e nella Siberia orientale.
A questo riguardo, un'altra diserzione si era verificata a beneficio dei giapponesi. Un capitano dell'armata mongola, Deinbajap, aveva varcato a sua volta la frontiera manciukiana fornendo particolari su un'altra «purga» avvenuta a Ulan Bator, capitale della Mongolia Esterna. Il primo ministro Danber e il ministro della difesa Demit erano stati passati per le armi. Mosca, in base al trattato di assistenza e collaborazione sovietico-mongolo del 12 marzo 1936, aveva inviato a Ulan Bator ufficiali fidati per «bonificare» i reparti dell'armata mongola. Vacillava dunque anche la repubblica popolare di Ulan Bator. L'organizzazione antisovietica «Banner di destra», operante dal Manciukuò, aveva l'occasione, unica, di provocare un colpo di Stato nella Mongolia Esterna in collega¬mento coi dissidenti di Ulan Bator favorevoli a staccare la repubblica dall'URSS.
Lo Stato Maggiore giapponese valutò il tutto e, nonostante la tradizionale riservatezza nipponica, ritenne di dover mettere al corrente i tedeschi delle rivelazioni fatte da Ljuskov. Il patto anti-Comintern era stato dopotutto sottoscritto da Germania e Giappone il 25 novembre 1936 (vi aveva aderito anche l'Italia l'anno successivo) proprio per colpire l'Unione Sovietica, e quello era il momento di far diventare operante il trattato. Ljuskov assicurava che la Russia di Stalin era sull'orlo della disintegrazione: per assestarle il colpo di grazia era necessaria una azione combinata, in Asia e in Europa.
L'ambasciatore tedesco a Tokio, Eugen Ott, e Vaddetto militare, maggiore Scholl, poterono così prendere visione delle rivelazioni di Ljuskov. A questo punto entrò in azione Richard Sorge, la famosa spia sovietica operante in Giappone dal 1933, con la eccellente copertura di giornalista tedesco iscritto al partito nazionalsocialista, di esperto in problemi dell'Estremo Oriente e soprattutto di confidente e amico personale dell'ambasciatore tedesco a Tokio, Eugen Ott. Questi non nascose nulla a Sorge sull'«affare Ljuskov». Il giornalista fu anzi interpellato da Ott quando venne chiesto a Berlino l'invio, con la massima urgenza, di uno specialista in problemi sovietici dell’Abwehr, il Servizio segreto militare tedesco diretto dall'ammiraglio Canaris. Il colonnello Grailing giunse infatti nella capitale giapponese in tempo per assistere al secondo ciclo degli interrogatori di Ljuskov.

la guerra che non c e

Sorge diede l'allarme al IV Bureau dell'Armata Rossa. L'operatore radio della spia, Max Klausen, cominciò a lanciare attraverso l'etere una serie di circostanziati messaggi su quanto Ljuskov aveva rivelato ai giapponesi e, conseguentemente, ai tedeschi. Il generale Peresypkin, da poco nominato direttore del IV Bureau, potè così valutare in tutta la sua estensione e gravita il danno provocato dal generale transfuga. A parere dello stesso Sorge, «una delle conseguenze del rapporto era il pericolo di una azione militare nippo-tedesca contro l'URSS». Il IV Bureau, come in altri frangenti, mantenne un cupo silenzio con il prezioso agente operante a Tokio. Ma l'opera di Sorge durante l'«affare Ljuskov» fu uno dei maggiori servizi che egli rese all'URSS nel corso della sua missione in Giappone, conclusasi tragicamente per la spia. Il comando dell'Armata Rossa in Estremo Oriente fu posto in stato di allarme. Il maresciallo Blücher fece affluire truppe e mezzi nei punti più minacciati di una frontiera che si snodava lungo un perimetro di migliaia di chilome¬tri. Il primo brontolio ammonitore della tempesta che stava addensandosi venne avvertito a Ch'angkufeng, in prossimità del lago Hasan, dove si incontravano i confini della Corea, del Manciukuò e della Provincia Marittima sovietica. L'armata giapponese del Kwangtung aveva in quel momento la consistenza di 350.000 uomini, con 1.052 cannoni, 385 mezzi corazzati leggeri e 355 aerei. In Corea si trovavano altri 60.000 uomini, con 264 cannoni, 34 carri armati e 90 aerei.
Il compito di «saggiare» la consistenza delle forze sovietiche in una posizione-chiave per un attacco in direzione di Vladivostok, fu affidato alla 29a divisione giapponese forte di 20.000 uomini, rinforzata con tre battaglioni di mitra¬glieri e appoggiata da artiglieria pesante e contraerea e da alcuni treni blindati. Alle spalle, pronte a sfruttare il successo, c'erano una divisione e una brigata di fanteria, una brigata di cavalleria, alcuni squadroni di carri armati: 70 aerei erano stati messi a disposizione del comando della 29a divisione.
Le prime azioni di disturbo dei giapponesi ebbero inizio il 29 luglio 1938. Poi iniziò l'attacco vero e proprio diretto contro le alture Biesimianaja (Collina Senza Nome) e Zaozornaja (Collina Dietro il Lago) dominanti Hasan. I due rilievi furono conquistati dalla fanteria giapponese che si sistemò a difesa. Il 2 agosto, contro tutte le previsioni, i sovietici contrattaccarono con estrema decisione mettendo in linea la 32a divisione di fanteria (colonnello Berzarin) e la II brigata corazzata (colonnello Panfilov) con 15.000 uomini, 220 cannoni e mortai e 351 carri armati medi e pesanti appoggiati da 250 aerei. L'armata Primorskaja (Litorale) si teneva pronta a intervenire. La battaglia divampò con esito incerto nei giorni 3 e 4 agosto. Il maresciallo Blücher, comandante in capo, non si rivelò all'altezza della situazione (venne infatti sostituito subito dopo). Ma i colonnelli Berzarin e Panfilov reiterarono gli attacchi e il 9 agosto le colline Biesimianaja e Zaozornaja furono strappate ai giapponesi, colti di sorpresa a causa dell'impiego di carri armati sovietici molto superiori ai modelli nipponici. Anche l'aviazione sovietica aveva dimostrato, con numerose sortite, di poter fronteggiare le squadriglie giapponesi, vantando per di più una netta superiorità numerica.
Quando, il 10 agosto, i combattimenti cessarono, sul terreno erano rimasti 847 russi e 881 giapponesi. Fatto più grave, lo Stato Maggiore dell'armata del Kwangtung aveva riscontrato una resistenza dei reparti avversari superiore a ogni previsione. L'11 agosto, in fretta e furia, l'ambasciatore giapponese a Mosca, Shigemitsu, negoziò una tregua con il Commissario sovietico agli esteri Litvinov. Seguì una pausa piuttosto lunga. Le informazioni fornite da Ljuskov furono riconsiderate con più attenzione. L'insuccesso del lago Hasan venne attribuito a errori di valutazione dello Stato Maggiore dell'armata del Kwangtung, convinto che i sovietici non potessero concentrare grandi forze meccanizzate e corazzate in una zona paludosa. E poi, bisognava attaccare fin dall'inizio in direzione della Mongolia Ester¬na, non della Provincia Marittima che aveva in Vladivostok una base eccellente e un centro logistico tradizionalmente bene organizzato per la sicurezza dell'Estremo Oriente russo, fin dai tempi degli zar.
La crisi nippo-sovietica riesplose nella primavera del 1939: teatro, la zona di Nomonhan, lungo il fiume chiamato dai giapponesi Halahar e dai russi Kalkin-Gol. Obiettivo dell'armata del Kwangtung, battere i reparti mongoli, scoraggiare un intervento sovietico, provocare un rivolgimento politico interno a Ulan Bator, creare i presupposti per un'espansione giapponese. Le forze non erano state lesinate per l'impresa: 75.000 uomini con 500 cannoni, 182 carri armati e 300-350 aerei.
L'11 maggio 1939 si accesero i primi combattimenti. I reparti confinari mongoli si ritiraro¬no a occidente del fiume Kalkin-Gol mentre il LVII Corpo d'Armata sovietico, di stanza in Mongolia, si muoveva verso la frontiera. Ma ci voleva ben altro per respingere gli attaccanti e ricacciarli oltre il fiume.
Il Commissario sovietico alla Difesa, maresciallo Voroscilov, ebbe il merito di scegliere l'uomo giusto per guidare alla riscossa le truppe dislocate in quel lontano teatro di operazioni. Il 1° giugno il generale di corpo d'armata Gheorghi Zukov, comandante della regione militare della Bielorussia, venne convocato a Mosca. Zukov ricevette praticamente carta bianca da Voroscilov. Il 5 giugno il generale si trovava già in Mongolia. Convinto assertore della guerra meccanizzata, Zukov si era fino a quel momento attirato l'antipatia di molti ufficiali dello Stato Maggiore sostenendo la necessità di un'artiglieria mobile di copertura ai carri, con pezzi pesanti semoventi a disposizione dei comandanti dei reparti corazzati. Gli artiglieri dell'Armata Rossa si erano molto risentiti, gelosi della loro autonomia, delle loro tradizioni e dell'aureola storica che circondava l'arma dai tempi di Pietro il Grande. Zukov, ritenendo del tutto insufficiente il LVII Corpo d'Armata presente in Mongolia, Chiese rinforzi: sollecitò soprattutto l'invio di forti reparti corazzati e meccanizzati. Impresa non certo facile in una regione desolata, priva di arterie stradali e ferroviarie e dal terreno tormentato. Si trattava in effetti di compiere uno sforzo logistico notevole, con le basi lontane da 600 a 700 chilometri rispetto alla prima linea.
Oltretutto, i giapponesi non erano rimasti inattivi. Nell'ultima decade di giugno, lo Sta¬to Maggiore dell'armata del Kwangtung tentò di assicurarsi il dominio dell'aria. Il 22 giugno, 120 aerei con i colori del Sol Levante vennero lanciati a occidente della frontiera: furono affrontati in violenti duelli da 95 caccia sovietici. Il 26 giugno, un'altra battaglia aerea avvenne sulla verticale del lago Buirnor. I risultati non furono incoraggianti per i giapponesi che perdettero 64 aerei in quattro giorni, anche se la propaganda esaltò le imprese del sergente maggiore Saito e del tenente Suzuki, che avevano abbattuto alcuni aerei sovietici. Sul piano politico e diplomatico si stava assistendo a qualcosa di molto singolare. Era iniziata la più incredibile delle guerre, dal momento che Tokio e Mosca sembrava¬no decise a non drammatizzare il significato e la portata dei combattimenti. Le due potenze stavano verificando i rispettivi dispositivi militari, in vista degli anni terribili che sarebbero seguiti. Quanto all’Europa, essa era troppo distante e distratta dalla crisi tedesco-polacca per badare a ,quella bega estremo-orientale, riecheggiata dai dispacci degli addetti militari a Tokio e da qualche corrispondente di guerra. Il governo manciukiano di Hsinkin, tanto per salvare la faccia, tentò di riversare sui sovietici la colpa degli «incidenti». Mosca si chiuse in un ermetico silenzio. Mentre l'aviazione sovietica teneva a bada gli stormi giapponesi — perdendo a sua vol¬ta non meno di 60 aerei fino alla fine di giugno — Zukov stava organizzando i rinforzi e i rifornimenti giunti attraverso la Transiberiana. Furono trasportate 18.000 tonnellate di munizioni, soprattutto proietti di artiglieria pesante; 6.500 tonnellate di bombe per aerei; 15.000 tonnellate di carburanti; 4.000 tonnellate di vi¬veri; 7.500 tonnellate di legname; 4.000 tonnellate di generi vari. L'autoparco raggiunse una consistenza di 3.500 mezzi pesanti e 1.400 autocisterne. Ciascun camion, durante tutto il mese di luglio, percorse in media 1.300 chilometri al giorno con una temperatura torrida che sfiorava i 50 gradi.
A scaglioni, raggiunsero la prima linea due brigate di carri per fanteria e tre brigate di cavalleria blindata di rinforzo alla XI brigata carri, al 24° reggimento di fanteria, alla VII brigata di cavalleria blindata e all'8a divisione di cavalleria mongola, già impegnati. Giunsero anche la 36a divisione di fanteria motorizzata e la 57a e 82a divisione di fanteria. Zukov comandava praticamente un'armata, condividendo la responsabilità delle operazioni col suo vice, il generale di brigata Potapov. Dal 5 luglio al 12 agosto i giapponesi si limitarono ad azioni di disturbo. Il generale Umezu, comandante dell'armata del Kwangtung, era perplesso. La conquista dello spazio aereo lungo la frontiera con la Mongolia non era stata conseguita. Qualcosa non funzionava in quella storia, dal momento che Tokio insisteva e tempestava per una decisa offensiva, in base alle informazioni ricevute da Ljuskov. Il blitz, la guerra-lampo, si stava trasformando ormai in guerra di logoramento, contro tutte le previsioni.
Umezu non poteva certamente immaginare che Sorge aveva vinto la battaglia prima ancora che Zukov si rivelasse ottimo comandante d'armata. Né sospettava che la presunta superiorità giapponese era svanita. I sovietici potevano infatti vantare forze prevalenti nella proporzione di 1,5 in più per la fanteria, 2 volte in più per l'artiglieria e 4 volte in più per i mezzi corazzati. Anche in fatto di aviazione, la caccia sovietica surclassava quella giapponese. Inoltre, Zukov ricorse ad una serie di stratagemmi per confondere il comando nipponico. Sulle desolate distese a occidente del fiume Kalkin-Gol e del lago Buirnor iniziò una singolare «guerra di altoparlanti». Di notte, venivano riprodotti i rumori di unità meccanizzate in movimento, di artiglierie pesanti in transito, perfino di aerei a volo planato.
I due contendenti non potevano d'altra parte avvalersi di informatori, a causa della asso¬luta mancanza di abitanti in quella terra ingrata e inospitale.
Nell'imminenza dell'offensiva, gli ordini scritti furono tassativamente aboliti per disposizione di Zukov. La fase finale della preparazione avvenne in cinque giorni e le truppe furono poste in stato d'allarme tre ore prima dell'attacco.
II  20 agosto, una domenica, l'attacco di Zukov scattò. Poco prima delle 6, l'artiglieria iniziò i tiri di aggiustamento, facendo largo uso di granate fumogene  per orientare  l'aviazione sugli obiettivi individuati.
Subito dopo, 150 bombardieri e 100 caccia attaccarono le posizioni giapponesi. Alle 8,15 l'azione era diventata generale. Sulla pianura, tra le dune di sabbia, perfino tra gli acquitrini, sferragliavano i carri 67-5 e BT-7, con cannoni da 45 e da 76,2 millimetri, ed i carri anfibi 7-38, invano contrastati dagli scadenti 7-95 e 7-988 giapponesi, privi di corazzatura, con piccoli cannoni da 37 millimetri e meccanicamente poco idonei per operare su quel terreno.
Fu l'inizio di un processo di disgregazione del dispositivo giapponese. La 23a divisione nipponica perdette in poche ore il 70 per cento degli effettivi: 11.124 uomini rimasero sul terreno. Il 26 agosto la linea giapponese, dopo aver a lungo oscillato, si spezzò: migliaia di uomini ripassarono il fiume Kalkin-Gol. Zukov si astenne dell'inseguire il nemico. Stalin e Voroscilov avevano raccomandato: «A nessuno costo penetrare in territorio manciukiano. L'Unione Sovietica non vuole provocare una guerra generale contro il Giappone».

soldato giapponese e russo

Singoli episodi di valore vennero esaltati a Tokio, in particolare le prestazioni delle unità Yamagata e Azuma (dai nomi dei comandanti). In realtà, i giapponesi combatterono al solito fino all'ultimo uomo; i prigionieri in mano dei sovietici furono pochissimi. Quanto all'aviazione nipponica, un'incursione violenta avvenne contro la base di Tamsek, in territorio mongolo, con la distruzione al suolo di una trentina di aerei sovietici. Ma il bilancio delle operazioni era nettamente negativo per Tokio e per la celebrata armata del Kwangtung, anche se alcuni corrispondenti di guerra — tra cui il francese Maurice D'Alton — scrissero per il Manchuria Daily News articoli che parlavano di «vittoria», non senza rendere omaggio al valore dei sovietici e dei mongoli.
In quei giorni, Richard Sorge richiamava astutamente l'attenzione dell'ambasciatore tedesco Ott sul significato del disastroso (per i giapponesi) esito della battaglia di Nomonhan: «Feci osservare che le dichiarazioni di Ljuskov e degli altri circa la supposta debolezza dell'esercito rosso si dimostravano ora menzognere. Se l'esercito giapponese voleva scacciare l'esercito rosso dalle posizioni che occupava al presente, gli sarebbero occorsi 400-500 carri armati: il che superava l'efficienza industriale del Giappone. La Germania doveva studiare più a fondo l'incidente di Nomonhan nel suo complesso e scartare la vecchia idea che l'esercito rosso non fosse in grado di opporre una resistenza seria». Cioè a dire, l'eventualità di un collasso dell'URSS a causa della debolezza dell'Armata Rossa era una pericolosa illusione. Il 15 settembre 1939, dopo regolari consultazioni a livello dei ministri degli Esteri (Mo¬lotov aveva nel frattempo sostituito Litvinov) Giappone e Unione Sovietica firmarono un armistizio per chiudere l'«incidente di Nomonhan». I giapponesi avevano registrato un bruciante insuccesso. Quanto all'URSS, Stalin aveva fretta di liberarsi dagli impegni in Estremo Oriente. Era il turno dell'Europa. Il 17 settembre due gruppi di armata sovietici attaccarono la Polo¬nia, già messa a ferro e a fuoco dai tedeschi, in applicazione del protocollo segreto del patto di non aggressione nazi-sovietico, sottoscritto il 23 agosto 1939 a Mosca da Molotov e da von Ribbentrop. Zukov rimase in Estremo Oriente fino al maggio del 1940 e, tornato a Mosca, venne promosso generale d'armata e fu ricevuto per la prima volta da Stalin al Cremlino.
Il Giappone tentò di dimenticare Nomonhan, anche se la lezione fu meditata almeno dai militari. Ma le conseguenze politiche e strategiche si fecero avvertire ugualmente allorché si trattò di definire i piani a lungo termine. Nella primavera del 1941, quando il ministro degli Esteri giapponesi Yosuke Matsuoka iniziò un'importante missione in Europa e si incontrò con Hitler, Mussolini e Stalin, i risultati furono inattesi quanto sorprendenti. Matsuoka, attenendosi alle istruzioni ricevute a Tokio, non prese alcun impegno con la Germania e con l'Italia, nonostante il Patto Tripartito fosse operante dal 27 settembre 1940. Il 13 aprile 1941, sulla via del ritorno in patria, il ministro degli Esteri nipponico firmò a Mosca un patto di neutralità con l'URSS, cogliendo completamente di sorpresa sia il governo tedesco sia l'ambasciatore Ott. Matsuoka e Molotov si accordarono altresì per porre fine alle questioni di frontiera tra la Mongolia Esterna e il Manciukuò: lo «status quo» fu confermato. L'ombra di Nomonhan si proiettò certo sui colloqui. Lo Stato Maggiore giapponese continuò, è vero, a studiare un'offensiva contro l'Estremo Oriente sovietico. L'armata del Kwangtung (denominazione volutamente ingannevole, trattandosi di un gruppo di eserciti che arrivò a comprendere sette armate con circa un milione di uomini) fu tenuta pronta a marciare. Quando, tuttavia, la Germania attaccò l'Unione Sovietica il 22 giugno 1941 (nel corso dell’Operazione Barbarossa) il Giappone restò con le armi al piede, mentre i carri armati di Hitler si spingevano fino in vista di Mosca.
Il piano Kan-Toku-en, che prevedeva tre direttrici di attacco, verso Vladivostok, verso il fiume Amur e verso il lago Bajkal per la conquista di tutto l'Estremo Oriente sovietico, rimase nel cassetto. Il 2 luglio 1941, con le decisioni prese dal Consiglio imperiale, alla presenza dell'imperatore Miro Mito, il Giappone decise l'attacco verso sud, contro Stati Uniti, Gran Bretagna e Indie olandesi. Vana risultò la speranza dei tedeschi di un attacco nipponico alle spalle dell'URSS. La rete spionistica diretta da Sorge fu in grado, in quei mesi, di tenere costantemente informata Mosca sugli umori prevalenti a Tokio e sulle decisioni più importanti prese dal governo e dallo Stato Maggiore. Le informazioni di Sorge risultarono preziose. La spia, alla quale non era stato concesso credito quando comunicò la data esatta dell'attacco tedesco, fu tenuta in considerazione dopo il 22 giugno 1941, quando la minaccia di un attacco alle spalle era una prospettiva paurosa per i dirigenti del Cremlino.
Fu Sorge a consentire prima lo spostamento verso occidente della 16a armata sovietica, dislocata a oriente del lago Bajkal, poi il trasferimento di undici divisioni di fucilieri dall'Estremo Oriente, un'operazione che interessò un quarto di milione di uomini. Le divisioni giunsero in tempo per partecipare alla controffensiva lanciata da Zukov il 6 dicembre 1941, sotto lo mura di Mosca. Fu quello il capolavoro di Sorge, prima di cadere nelle mani della Tokko, la polizia superiore speciale giapponese. La spia venne impiccata tre anni dopo, il 7 novembre 1944, anniversario della Rivoluzione d'Ottobre; anche se si è favoleggiato di uno scambio segreto tra giapponesi e sovietici. Nel novembre del 1964, vent'anni dopo l'esecuzione capitale, Sorge venne proclamato «eroe dell'Unione Sovietica»,riconoscimento postumo, ma doveroso. Branko Vukelic, un altro elemento dell'organizzazione Sorge, morto di stenti nelle prigioni di Tokio, ricevette, alla memoria, l’«Ordine di prima classe della guerra patriottica». Sorge e i suoi collaboratori avevano scritto, in effetti, una pagina affascinante in favore dell'URSS, pagando con la vita la dedizione alla causa. Di tutte le operazioni, quella svolta da Sorge all'epoca dell'«incidente di Nomonhan» è la meno nota e la meno trattata. Ma è un errore minimizzare l'episodio.
Senza le tempestive segnalazioni di Sorge, dopo la diserzione del generale Ljuskov, il corso degli avvenimenti politico-militari in Estremo Oriente avrebbe potuto assumere una direzione completamente diversa. Qualora il colpo studiato dallo Stato Maggiore giapponese nel 1939 contro la Provincia Marittima e la Mongolia Esterna fosse riuscito e l'Armata Rossa avesse subito una disfatta, l'atteggiamento di Tokio sarebbe stato certamente più «interventista» quando la Germania attaccò l'Unione Sovietica, che ebbe quasi subito un disperato bisogno di sottrarre uomini e mezzi dalla Russia asiatica per puntellare il vacillante fronte europeo. L'instancabile, paziente impegno di Sorge, che vegliava sulla sicurezza dei confini di Mosca in Estremo Oriente, risultò un elemento decisivo in una partita mortale che aveva come posta la sopravvivenza stessa dell'Unione Sovietica.