SOMMARIO

Anno X
Numero 1
Novembre 2018

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ARCHIVIO

 

 

 

 

Il cavallo rivoluzionò la tecnica militare
di Franco Cardini
I primi a montarlo in battaglia furono gli Sciti, «signori delle steppe».
Quando nelI'VIII secolo si diffuse 'la staffa,’ la cavalleria pesante divenne una protagonista della storia.

Un grande storico francese, Lucien Febvre, se la prendeva spesso con gli studiosi usi a trattare certi temi di storia socioeconomica senza preoccuparsi minimamente dell'aspetto tecnico di essi: con quanti a esempio, conducendo un'indagine di storia dell'agricoltura, mostravano sovrana nonchalance per tutto quel che concerneva gli attrezzi agricoli, i metodi di trattamento del terreno, i ritmi e i sistemi di lavoro. Come se — commentava il Febvre — i contadini d'un tempo avessero arato la terra con dei pezzi di carta.
Anche la storia cosiddetta «militare», o la storia della guerra in genere, è stata a lungo vittima di atteggiamenti e di pregiudizi di questo tipo, e studiata al massi¬mo come un aspetto collaterale della storia politica e diplomatica: lavoro aulico e accademico, da farsi a tavolino, lontano dalle cure «meccaniche». Si parlava così di storia navale senza saper con esattezza neppure in che modo erano disposti i banchi dei rematori su una galea; si discuteva d'artiglieria e della sua importanza nelle guerre napoleoniche senza aver la minima idea di quali problemi comportasse la fusione d'un cannone. In Italia, un atteggiamento del genere è stato a lungo sostenuto dall'egemonia dell'idealismo che tendeva a svalutare gli aspetti «pratici» delle questioni e a privilegiare invece il legame tra storia e filosofia. In una storia militare che — a parte i benemeriti sforzi di molti — era sempre più in realtà storia di sovrani e di istituzioni, storia di battaglie e di schieramenti (quando non scadeva nel retorico e nel celebrativo) capi e soldati venivano costretti, spesso, a combattere con pezzi di carta, a cavalcare pezzi di carta. Da qui l'immeritato ostracismo di cui nel nostro Paese la storia militare è stata vittima nel dopoguerra, aggravato da un equivoco di natura politica: si temeva che, dopo che il fascismo ne aveva fatto materia di studio nelle scuole, la storia militare non potesse non essere una disciplina «militaristica». E ciò, nonostante il lavoro di ottimi specialisti, quali Piero Pieri e la sua scuola. Oggi, comunque, tale impasse pare definitivamente superata. Scienze Come l'archeologia, la storia della tecnologia, la storia delle culture materiali, sono venute in aiuto allo storico costringendolo — è vero — a un supplemento di preparazione e alla faticosa disciplina del lavoro in équipe, ma fornendogli al tempo stesso un decisivo strumento nella soluzione di problemi per i quali la sua tradizionale «attrezzatura umanistica» (si parla, beninteso, dell'Italia) era insufficiente.
Questo rinnovamento metodologico è partito dalla scuola francese del Febvre e di Mare Bloch e si è ampiamente giovato dei progressi compiuti, nel campo dello studio delle culture materiali, specie in Unione Sovietica, in Ungheria, in Polonia. Il nostro Paese, come purtroppo capita spesso, non è stato neppure in questo caso all'avanguardia: ma sta almeno imparando, ed è già qualcosa.
Alla luce di queste nuove esigenze, gli studiosi di storia antica e i medievalisti sono tornati a esaminare le vicende di un protagonista dell'età preindustriale: il cavallo, compagno dell'uomo sul campo di battaglia e nel lavoro.

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Per intere generazioni si è ripetuto che il medioevo è l'età della cavalleria e dei grandi dissodamenti, quindi del cavallo-arma e del cavallo-forza motrice. Già, è presto detto: ma, nella realtà concreta, che tipo di cavallo? Proveniente da dove? Allevato e addestrato come, da chi? Capace di quali prestazioni? Condizionato da quali limiti? Selezionato secondo quali principi, e con quali tecniche? Infine, costoso quanto, e dunque accessibile a quali ceti?
Tutto ciò non basta ancora. Se esaminiamo le antiche fonti relative al cavallo — da quelle scritte a quelle archeologiche o monumentali — noi troviamo in esse il costante comune denominatore mitico-sacrale. Presso i Greci, esso è l'animale sacro ai luminosi dèi celesti come Apollo non meno che alle divinità degli abissi marini o sotterranei, a Poseidone e ad Hades che nell'Iliade compare con l'epiteto di «Signore dei corsieri». Accompagna e simbolizza l'«apoteosi», cioè la divinizzazione dei mortali, degli eroi ellenici come degli imperatori romani: le statue equestri sono l'espressione di questo importante quadro sacrale. La morte e la rinascita, la discesa agli inferi e l'ascesa ai cicli sembrano essere strettamente connesse al culto del cavallo: Pegaso, il corsiero alato di Bellerofonte, si dice nato dal sangue di Medusa e nel suo stesso nome (da pegài, «acque marine») rinvia a una nascita oscura, a un culto tellurico. Nei miti si può dire di tutti i popoli indoeuropei il ricordo del sacrificio del cavallo è connesso al culto degli dèi uranici, ma d'altro canto quell'animale ha un ruolo fondamentale nelle esequie e accompagna il morto verso la sua estrema dimora. L'uso dell'inumazione del cavallo insieme al cavaliere era diffuso tra i Reitervölker («popoli cavalieri») delle steppe, quelli di stirpe indoeuropea non meno che gli ugriani. Ancora ai giorni nostri il folklore degli ultimi discendenti degli antichi Sarmati, cioè degli Osseti del Caucaso, presenta l'ultimo viaggio del defunto come un'avventurosa cavalcata oppure come un «rinascere» entro la pelle di un cavallo sacrificato: lo stesso mito del «cavallo di Troia» sembra ricondurre a credenze del genere. Le leggende relative a cavalli parlanti e predicenti il futuro, rimaste nell'epica medievale e nelle fiabe popolari, risalgono direttamente all'antichità greco-romana non meno che a quella celto-germanica. Cavalli sacri, dotati di poteri divinatori, erano venerati presso i Celti e presso i Germani; tra i Galli era conosciuta la dea Epona, protettrice di stalle e di cavalieri; nella mitologia germanica, il cavallo era compagno degli dèi superiori, gli «Asi» (si ricordi soprattutto Sleipnir, l'ottopode corsiero di Wotan), e delle Walkirie. Nelle legioni romane acquartierate nell'area danubiana, era diffuso il culto di una divinità equestre, il misterioso «Cavaliere trace», mentre nell'Egitto ellenistico-romano si adorava un Horus equestre che uccideva il coccodrillo-Seth (personificazione delle forze del male) e che forse ha costituito l'archetipo del culto e della figura di San Giorgio, assai venerato in area copta e cristiano-orientale. Parecchi santi cristiani — per esempio sant'Eligio, maniscalco — hanno a che fare con il cavallo e paiono essere in realtà cristianizzazione di antiche divinità pagane. Compagno d'oltretomba, il cavallo estendeva il suo aspetto di tremenda sacralità fino a presiedere a culti e a credenze legate ai riti di fine e di rigenerazione del mondo. Gli indiani gandharva e i loro parenti greci, i centauri, possono celare nelle pieghe del loro mito il ricordo di un popolo di feroci cavalieri. Soprattutto sembrano rinviare a certe società segrete che raffiguravano ritualmente il periodico ritorno al caos e quindi ponevano le condizioni magiche per la successiva restaurazione dell'ordine cosmico. Società iniziatiche del genere sembrano essere state quelle dei cosiddetti «guerrieri-belva» germanici (gli uomini-lupo, ùlfhedhnar, e gli uomini-orso, berserkif), caratterizzati da una parentela magico-totemica con le belve di cui assumevano figura, atteggiamenti e nome. Le origini profonde dell'araldica medievale sono state forse queste. Questa presenza del cavallo, alla fine dell'antichità e all'inizio del medioevo, si sdoppiò caratteristicamente, nella simbologia cristiana, in due ordini opposti di valori. Da un lato il cavallo divenne per eccellenza l'animale nobile, il simbolo delle più rare virtù di coraggio e di lealtà (era il compagno del cavaliere e di certi santi guerrieri, come Giorgio e Demetrio); dall'altro era una belva feroce e terribile (i cavalli dell'Apocalisse), addirittura forma preferita delle incarnazioni demoniache (i «cavalli neri» della leggenda di Teodorico, ricordata anche in un celebre passo di Giosuè Carducci, o della cosiddetta «caccia feroce», apparizione notturna di funesti cacciatori).
Comunque fosse, la demonizzazione non bastò a far dimenticare ai popoli da poco evangelizzati che la presenza equina era una presenza sacrale. I morsi, le briglie, gli speroni, più tardi le staffe, sepolti accanto ai guerrieri germanici ormai cristiani, sono qualcosa di più che oggetti onorevoli indicanti la funzione militare e il rango del defunto: costituiscono forse il segno magico della persistente presenza del compagno d'oltretomba. Così le fibule longobarde «a testa di cavallo». Un quadro simbolico e mentale così ricco e complesso — esso, come ha notato Cari Gustav Jung, permane nella fantasia onirica, dove il cavallo ha un ruolo primario (si pensi al famoso dipinto Incubo di Johann Heinrich Füssli, opera del 1781) — era un corrispettivo dell'importanza del cavallo nella vita sociale e materiale e nelle tecnologie militari e produttive degli antichi popoli, soprattutto degli indoeuropei.
Il suo uso si affermò comunque con relativa lentezza: la fama che ancor oggi sopravvive della sua «furia», della sua «pazzia», attesta che l'addomesticarlo non dovette essere facile. Di recente si è sviluppata tra gli studiosi un'ancor non risolta polemica sull'animale il cui addomesticamento dovette far da modello a quello equino, e di cui pertanto il cavallo finì con il prendere il posto. Prove linguistiche e archeologiche militano a favore di una sostituzione del cavallo all'onagro (cioè all'«asino selvaggio») a sud del corrugamento alpino-himalayano, alla renna a nord di esso.
Si deve ad ogni modo notare che entrambi  quegli  animali  erano usati come trascinatori di carri piuttosto che come trasportatori di pesi e di uomini sul dorso. Le testimonianze sumeriche dell'onagro aggiogato risalgono al III millennio a.C., e il nome sumerico del cavallo suona «onagro di montagna», «onagro d'oriente», con   palese   rinvio  all'altipiano iranico.  Del resto l'ondata dei popoli indoeuropei nella prima metà  del II millennio  dovette perfezionare l'uso del cavallo aggiogato al carro piuttosto che introdurre l'uso del cavalcare, che richiedeva un lungo addestramento, un rapporto particolare tra uomo e animale, lo sviluppo della complessa bardatura da testa e da groppa. I rilievi tebani che illustrano la guerra tra il faraone Seti I e gli Hittiti (fine del XIV secolo a.C.) mostrano che questi ultimi usavano per combattere il carro da guerra, e cavalcavano solo quando si trattava di svolgere funzioni di staffetta o di esploratore.

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Userhet, segretario del faraone Amenofi II
a caccia di cervi con l'arco su un carro leggero trainato da un focoso cavallo.

(Affresco dalla tomba di Userhet, a Tebe, sulle rive del Nilo)

Questa sfiducia nelle prestazioni belliche del cavallo (forse derivata dalla sua ombrosità e dal suo carattere impulsivo) sopravvisse a lungo. Ancora nell'età altomedievale alcuni popoli germano-occidentali (gente assuefatta alla foresta e alla palude, dunque meno familiarizzata con il cavallo di quanto non fossero le popolazioni germano-orientali come Goti e Longobardi, abituate alla steppa) cavalcavano sì per spostarsi da un luogo all'altro o per cacciare — o anche per motivi di prestigio —  ma in battaglia preferivano scendere e combattere a piedi. Quanto al permanere dell'uso del carro da guerra, i suoi vantaggi sono evidenti: l'equipaggio di un carro era formato dall'auriga, che pensava solo alla guida dei cavalli, e dal guerriero che sciolto da quella preoccupazione poteva dedicare intere le sue energie allo scontro.

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Carro ippotrainato con un arciere hittita e il suo auriga.
Scultura dalle mura di Karkemish dell'870 a. Cristo.

Quando si cominciò a combattere dal dorso del cavallo (furono i popoli nordiranici, specie gli Sciti, e quelli «delle steppe» a farlo per primi), ciò avvenne estendendo alla guerra le tecniche venatorie: i primi guerrieri a cavallo furono armati alla leggera, erano principalmente arcieri che esercitavano il combattimento da lontano, in corsa, abili soprattutto nel farsi inseguire tirando poi sull'inseguitore (la proverbiale «freccia del Parto»). Lo studioso italiano Augusto Azzaroli ha scorto in un tardo rilievo hittita, risalente all'VIII-VI secolo a.C., la prima sicura prova archeologica di un guerriero a cavallo: ma va da sé che l'uso del carro da guerra rimase vivo a lungo, prima di restringersi alle parate e ai giochi sportivi. È noto che la cavalleria romana, armata alla leggera, combatteva usando la tecnica del volteggio e serviva principalmente per preparare il terreno: essa ebbe sempre un ruolo ausiliario rispetto alla fanteria pesante delle legioni. Da un punto di vista militare, comunque, si ha l'impressione che l'importanza della cavalleria si sia affermata relativamente tardi nella storia, grosso modo non prima della fine dell'antichità. Questo errore di prospettiva deriva dalla nostra educazione, storicamente parlando, «etnocentrica». Quando noi diciamo «antichità», continuiamo a pensare principalmente a quella greco-romana, massimo circummediterranea. Ma il mondo greco-romano — un mondo di colline e di montagne, di paludi, di boscaglie, di campi coltivati, di porti marittimi — non è un mondo adatto al cavallo: o almeno, non particolarmente. Il regno d'elezione di questi è costituito invece dai grandi altipiani e dalle vaste pianure spazzate dal vento: l'altipiano iranico, il deserto siro-arabico, il Sahara, e soprattutto quel mare d'erba e di pietre solcato da grandi fiumi e avente per confini a nord la taigà, ad est l'Altai e — riprendendo oltre esso — la grande muraglia cinese, a sud i rilievi caucasico-himalayani, ad ovest la piana del Danubio e il limes romano. Un mondo di pascoli e di polvere, di nomadi e di pastori, limitato dai tre grandi imperi antichi, romano, persiano e cinese: la steppa. Quella era la patria delle culture dei «popoli cavalieri».

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Il nostro discorso sulla cavalleria medievale si apre dunque con uno sguardo alla cultura scito-siberiana, fiorita tra il VII e il III secolo in una vasta area, grosso modo inquadrabile tra il basso bacino del Dniepr, il Caucaso e l'Altai, ma imparentata strettamente con le culture transaltaiche dei popoli di stirpe mongoloide da un lato, con quelle nordiraniche stanziate tra Caspio, Aral, Pamir (Sarmati e Saci) dall'altro. La civiltà equestre, nei suoi aspetti tecnologici non meno che nelle sue espressioni magico-religiose (il cavallo è una presenza sacrale costante nelle tecniche sciamaniche di «viaggio all'Aldilà»), ha la sua culla nel cuore stepposo del continente eurasiatico.
Gli Sciti raccolsero, forse tramite l'Urartu (a sud del Caucaso), l'eredità hittita e la perfezionarono, rimanendo in contatto lontano, ma diretto, con la grande cultura cinese, come testimonia la tecnologia della cosiddetta «arte delle steppe». I progressi di questi popoli nell'equitazione sono evidenti. Già dalla prima metà del I millennio a.C. il morso da bocca «snodato» o «articolato» — che permetteva di dirigere il cavallo senza ferirlo — era diffuso in tutta l'Asia nord-occidentale, e dal VII secolo è documentato con certezza nei kurgan (tombe a tumulo) dell'Altai. Intanto, l'incontro tra le varie razze equine — la bassa, tarchiata razza mongolica, da cui discendono il «cavallo di Przewal'skij» e il tarpàn, e l'alta, robusta razza occidentale — avvenuto probabilmente in area caucasica, favorì ampiamente nel tempo la selezione. Gli Sciti — come pare testimoniato da una brocca a rilievo trovata nella necropoli di Certomlyk, sul Dniepr — usavano in battaglia cavalcare una razza grande e pregiata, simile a quella di cui si servivano gli hittiti, mentre per altri usi ricorrevano ai tozzi cavallini della steppa, capaci di fornir buone prestazioni nella caccia e nei viaggi. Il cavallo «sarmatico» che i latini chiamavano verèdus doveva appartenere a questo secondo tipo. Dal tardo latino, paraverèdus, poi trasformato in parafrèdus si sono sviluppati i termini palegroi francese, palafreno italiano, Pferd tedesco, tutti usati per indicare un cavallo da sella ma inadatto a usi militari. Ben altre origini può vantare il grande cavallo da battaglia. Per illustrarle, è utile partire da un episodio della storia cinese della dinastia Han. Nella seconda metà del II secolo a.C. l'imperatore Wu-ti, preoccupato delle scorrerie degli Hsiung-Nu, stanziati tra Baikal e Huang-Ho, contro le sue frontiere, ricorse per tenerli a bada a due accorgimenti. Il primo fu il rafforzamento della Grande Muraglia; il secondo l'organizzazione di una cavalleria pesante dotata di lunga lancia, di spada a due mani, d'armatura di cuoio o di metallo: una cavalleria che non avesse nulla da temere dal lancio delle frecce. A questo scopo occorrevano grandi e forti cavalli.
Il piccolo cavallo del tipo Przewal’skij, usato dalla cavalleria leggera cinese e dai suoi avversari nomadi, era inadatto a così tanto: aveva taglia modesta, resistenza e velocità moderate, testa e collo tozzi, zampe corte, garretto basso.

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Cavallo e cavaliere mongoli in un dipinto cinese su seta del XIII secolo.
Tozzo, corto di gambe e di collo, questo quadrupede è l'antico progenitore
del "cavallo di Przewal'skij"


Wu-ti venne a sapere che, nel paese di Ta-yuan, esistevano «cavalli celesti», nati da divini. Erano imprendibili stalloni che abitavano sui monti dai quali scendevano per unirsi con le giumente. Il Ta-yuan corrispondeva al Ferghana, cioè all'area a nord dell'alto corso del Syr-Daria, là dove giungono i contrafforti del Tian Chan. Esso era abitato dal popolo indoeuropeo dei Saka (i Saci), affini agli Sciti.

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L'impugnatura di un pettine d'un sovrano scita del IV sec. a.C.
raffigurante un combattimento tra fanti e cavalieri

Tra 102 e 101 a.C., Wu-ti riuscì a piegare il regno del Ta-yuan e a importare in Cina i prodigiosi cavalli, i quali dovevano essere del medesimo tipo usato dai Parti e dai Sarmati, dai popoli cioè che avevano già sperimentato la cavalleria pesante. Erano animali alti e forti, atti a sostenere grandi pesi e dure fatiche, poco ombrosi e impressionabili, inclini ad affiatarsi con l'uomo. L'odierna razza dello Shire è tipologicamente e caratteriologicamente vicina ad essi.
Fu su queste basi che avvenne, nell'Eurasia del I secolo a.C., una vera e propria «rivoluzione militare». Diamo la parola, per illustrarla, a uno storico sovietico, il Gumilev: «A Occidente i Parti e i Sarmati introdussero l'uso della cavalleria pesante. I corpi del cavaliere e del cavallo erano coperti di una corazza a scaglie, un alto elmo a punta proteggeva la testa. Il cavaliere aveva come armi d'offesa una lunga, pesante lancia e una spada a due mani. I guerrieri così armati si ordinavano su una linea e travolgevano la folla degli avversari armati alla leggera. Così i Sarmati ebbero facilmente ragione degli Sciti nelle steppe del Mar Nero, e i Parti arrestarono l'avanzata delle legioni romane, respingendole dal Tigri all'Eufrate». Più tardi, appunto nel secolare scontro con i Parti, anche i Romani adottarono questo tipo di cavalleria pesante: «catafratti», ausiliari d'origine sarmatica. L'importanza del cavallo del tipo del Ferghana, con la sua indole calma e coraggiosa, era fondamentale per il catafratto. Egli disponeva di un'alta, pesante sella, un vero e proprio sedile (questo infatti significa, in latino, il termine sella), dato che la vecchia sella leggera, o gualdrappa-semisella, non avrebbe consentito comodità e stabilità a un cavaliere pesantemente armato. Egli era però una greve massa di muscoli e d'armi in equilibrio su un alto animale: il tipico punto di appoggio e di forza dell'uomo a cavallo, la staffa, gli mancava. Tuttavia pare che la sua statica fosse eccellente. Si suppone che egli disponesse di un sistema di fissaggio al cavallo della lunga lancia che doveva manovrare a due mani, sistema che consisteva in supporti e corregge; e che appoggiasse la parte inferiore delle cosce e del bacino alle due faretre disposte ai due lati posteriori della sella. Inoltre il sistema di cavalcare differiva da quello successivo: il cavaliere premeva cosce e gambe lungo i fianchi e la pancia dell'animale, con le ginocchia leggermente divaricate, in modo da accrescere la solidarietà statica del suo corpo con quello del cavallo; per serrare meglio la cavalcatura, disponeva poi le gambe in una posa asimmetrica. Nell'impatto con la lancia, compensava lo squilibrio del contraccolpo torcendo il busto e piegando in avanti la spalla destra in modo da recuperare un sicuro baricentro.

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Cavallo e cavaliere germanici da un monumento sepolcrale di Hornhausen (700 a.C.)

Si deve notare che il maneggio della lancia a due mani impediva di governare le redini durante la carica: il che presuppone un animale talmente docile e affiatato con il suo signore da poter essere guidato solo dalla voce e dalla pressione delle gambe. Ciò significa lungo tirocinio; significa vita comune, amicizia, «fratellanza» tra cavallo e cavaliere. Del resto, quando parliamo di attrezzatura del cavaliere pesante noi ragioniamo troppo da occidentali moderni: diamo cioè spazio eccessivo alla tecnica materiale, sottovalutando l'addestramento. Non doveva trattarsi solo di un certo tipo di morso o di sella: non a caso tutti gli antichi teorici dell'equitazione, da Senofonte in poi, insistono sull'addestramento e l'esperienza. Le prestazioni per esempio degli odierni cavalieri afghani — o quelle dei nostri acrobati equestri «d'alta scuola» — ci stupiscono ancor oggi anche perché vengono effettuate quasi senza l'aiuto di strumenti. Quando noi diciamo che questa o quella cosa era impossibile senza la staffa, mentre le fonti ci provano il contrario, è evidente non che le fonti sbagliano, ma che a noi sta sfuggendo qualcosa. E si torna, così, dalla storia della tecnica a quella della mentalità: si torna alla sepoltura comune del guerriero e del cavallo; si torna a quella sorta di identità fra uomo e animale che pare adombrata nel mito del centauro e che le leggi alemanne, in età altomedievale, chiamavano in causa affermando che colpire il cavallo era come colpire il cavaliere. Al cavallo il guerriero parla; a lui si rivolge chiamandolo per nome; ed esso è talmente fedele al suo signore — da Decio Mure al Cid Campeador — da seguirlo fino alla morte, sacrificandosi con lui e per lui. Il cavallo da guerra medievale è ancora, e resterà per il cavaliere, l'arcano compagno dei kurgan della steppa e dei sepolcri germanici, il fratello-guida dell'oltretomba, il veicolo della morte e della gloria. Nell'Occidente altomedievale la tradizione del cavaliere catafratto decadde e tese a scomparire con la decadenza dell'impero romano, anche se pare che Goti e Longobardi ne perpetuassero le tecniche. La cavalleria pesante si riaffermò comunque di nuovo a partire dalla seconda metà dell' VIII secolo, con l'arrivo di un nuovo strumento, la staffa. Essa pare sia nata verso il II secolo a.C. in India, ma la sua data di nascita e la sua evoluzione continuano a essere oggetto di controversia. Nella sua definitiva struttura — cioè come un triangolo ligneo o metallico, evoluzione forse di un primitivo laccio di cuoio — sembra essersi definitivamente affermata in Cina e nelle culture centroeurasiatiche solo a partire dal V secolo. La sua primitiva e fondamentale funzione dovette esser quella di consentire una comoda ascesa in sella. Essa tuttavia forniva in realtà prestazioni che sembrano più importanti: conferendo al cavaliere maggiore stabilità, gli permetteva una libertà prima sconosciuta nei movimenti (per esempio nel tirar d'arco); offrendo un solido punto d'appoggio creava una nuova solidarietà statica uomo-cavallo e consentiva lo sviluppo di un nuovo maneggio della lancia, quello che sarebbe divenuto caratteristico del cavaliere medievale, cioè l'attacco «a fondo» condotto imbracciando la lancia e serrando l'asta sotto l'ascella.

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Lanciere medievale a cavallo in una miniatura da un antico codice ferrarese.

Si è obiettato che, in realtà, il nuovo maneggio della lancia si ebbe solo a partire da qualche secolo più tardi rispetto all'arrivo della staffa in Occidente; tuttavia, non si deve dimenticare che il nuovo strumento, consentendo al cavaliere di alzarsi in piedi facendo forza sulle staffe, gli permise un nuovo e micidiale uso della lunga spada caratteristica dei Reitervölker, spada che sarebbe diventata l'emblema del cavaliere medievale. Il colpo vibrato con la lunga, pesante arma da fendenti — così diversa dal corto gladius romano, un'arma che si usava di punta — era micidiale se calava dal braccio di un cavaliere. La spada difatti poteva acquistar forza descrivendo un arco di quasi centottanta gradi. Va da sé che l'adozione della spada da fendenti imponeva la risoluzione di grossi problemi di tecnica metallurgica. In tal modo sviluppo dell'equitazione e sviluppo della siderurgia s'integravano a vicenda.
Affermatasi in Persia e a Bisanzio verso il VII secolo, la staffa passò in Occidente tramite i Bizantini (fra l'altro, molti guerrieri germanici solevano recarsi a Costantinopoli per servirvi come mercenari), ma forse anche grazie all'esempio dei nomadi Avari. Nel corso del IX secolo, la cavalleria europea prese a disporre anche del ferro, che riduceva le possibilità di scivolata del cavallo e di rottura dello zoccolo. Una serie di coincidenze e una discreta dose di determinismo hanno fatto sì che in un recente passato si sia attribuita alla staffa un'importanza forse eccessiva nel mutamento delle strutture sociopolitiche dell'Alto Medioevo e nella nascita della società feudocavalleresca. Si notò che lo sviluppo della cavalleria pesante legato alla concessione, da parte sovrana, di una quantità di beni (terre, di solito) sufficiente a chi la riceve per mantenersi ben armato, data appunto dalla metà dell'VIII secolo, e vi si volle vedere una risposta ai raid al di qua dei Pirenei degli Arabi di Spagna.
Le cose stanno in modo sensibilmente differente. È un fatto semmai che nella Francia dell'VIII secolo — a parte il pericolo costituito dai raid arabi e da quelli avari — si verificò una sorta di colpo di Stato che abbatté la vecchia dinastia merovingia e instaurò quella carolingia. I nuovi padroni, consci della loro illegittima posizione, provvidero a corroborarla concedendo ai loro sostenitori terre in misura tale che permettessero loro di armarsi in modo superiore alla restante popolazione franca. Con ciò, essi avviarono un processo verificatosi in tutto il continente, che consisteva nel dicotomizzarsi delle società germaniche (originariamente costituite da liberi guerrieri, e liberi in quanto guerrieri) in una élite di possidenti che grazie alle loro ricchezze potevano specializzarsi nella guerra — i milìtes — e in una massa di contadini che l'alto costo dell'equipaggiamento militare costringeva a rinunziare all'uso delle armi e a fornire, in sostituzione, il frutto del loro lavoro — i rustici—. In questa divisione del lavoro e in questa gerarchizzazione del prestigio sociale sta il nucleo della civiltà feudocavalleresca, che avrebbe dominato la scena europea fino all'età delle crociate. Non si diventava, quindi, milites per diritto di nascita (non nei primi tempi né solo per quello, almeno): lo si diveniva per abilità guerriera e per disponibilità di beni economici. Un cavallo in realtà costava molto, e le varie armi pesanti di offesa e di difesa non erano da meno. Una fonte, grosso modo coeva a Carlo Magno valuta un cavallo dalle 3 alle 6 volte più di un bue. Il cavallo divenne da allora veramente un protagonista privilegiato della storia.

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Due aurighi romani da circo con i cavalli riccamente imbrigliati.
(Mosaici conservati al Museo Nazionale di Roma)


Per lui si dovettero modificare anche abitudini e tecnologie agricole. Poiché esso aveva bisogno di avena, di orzo, di foraggio, i mercati dovettero adeguarsi alla domanda di questi prodotti. Il tradizionale «campo di marzo», l'assemblea armata degli antichi Germani, si mutò dall'età carolingia in «campo di maggio», in modo da permettere ai cavalli di trovare foraggio fresco in abbondanza. Il fatto che il cavallo fosse sempre più apprezzato come animale da guerra non significa che scomparisse come bestia da lavoro. Semmai, ebbe grande sviluppo la selezione delle razze equine. A partire dal X secolo si sviluppò l'allevamento di una razza alpino-occidentale forte e di massicce strutture, adatta al pesante carico del cavaliere armato non meno che alla greve charrue, l'aratro continentale adatto ai terreni pesanti del Nord. Ma per quanto, al settentrione soprattutto, restasse impiegato nell'agricoltura, il cavallo era ormai avviato a presentarsi sempre più come un animale da guerra: anzi — nella realtà e nelle rappresentazioni collettive — come l'animale da guerra per eccellenza. Lo sarebbe rimasto fino alla soglia dei giorni nostri. I bambini che ancor oggi restano affascinati dinanzi ai grandi cavalli bianchi delle giostre obbediscono, senza saperlo, a un'antica suggestione, aderiscono a un linguaggio collettivo antico di millenni. Sono in realtà, anch'essi, molto più figli della steppa di quanto non suppongano nei loro giochi guerrieri.
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San Giorgio, sul suo cavallo bianco, uccide il drago.
(Icona russa del XV secolo, Mosca, Galleria Tretjakov).