Viaggio in Kirghizistan
di Martina Giorgetti
Da un paio d’anni
a questa parte sognavo un viaggio in un paese dell’Asia centrale in
particolare: il Kirghizistan. Le poche foto che avevo visto mi parlavano di
cavalli, montagne, uno stile di vita votato all’essenzialità e legato
indissolubilmente a tradizioni millenarie. Tanto mi era bastato per farmelo
piacere fin da subito.
Il Kirghizistan è
confinato in mezzo a Cina, Kazakistan, Uzbekistan e Tagikistan; è un luogo di
passaggio sulle antiche rotte del commercio che facevano parte della Via della
Seta. È una terra di nomadi e viandanti, con una varietà incredibile di etnie,
contaminazioni culturali e paesaggi diversi.
Più del 90% del
paese è territorio montuoso che supera i 1000 m di altitudine. È una nazione
molto ricca di acqua; fiumi e laghi sono ovunque, difficile non incrociarne
almeno uno o percorrere una strada senza costeggiarne.
Il clima di questa
terra è diverso dai territori circostanti, grazie alla presenza di montagne
così alte che di certo regalano sollievo al clima invece ben più caldo e afoso
delle altitudini più basse dei paesi circostanti.
La capitale Biškek
è il classico esempio di città costruita e sviluppatasi sotto l’Unione
Sovietica: palazzi squadrati, monumenti ad ogni angolo. Ma basta allontanarsi
di poco dal traffico della capitale per capire la vera natura del paese: si
vedono animali liberi al pascolo o legati ai lati delle strade, gente che
chiacchiera tranquillamente in sella al proprio cavallo e bambini che spostano
il bestiame. Nelle città più piccole, le abitazioni hanno giardini rigogliosi:
roseti e alberi da frutto la fanno da padrone. Non manca mai un pollaio e
qualche animale per la sussistenza. La mattina presto, sulle strade meno
trafficate nei villaggi più sperduti, si vedono galline lasciate libere di
razzolare in mezzo alle strade e altri animali che brucano ai bordi della
strada, rigorosamente legati o impastoiati.
La parte nord del Kirghizistan è quella più affollata, con vere e proprie città
in espansione che comprendono resort turistici e ristoranti. La costa del lago
Issyk Kul, che più che un lago ricorda un mare, è una destinazione molto
popolare tra i turisti russi e kazaki. La parte sud al contrario è molto meno
artefatta, più selvaggia e composta per la maggior parte da piccoli villaggi,
pascoli, vallate e montagne che superano i 7000 m.
La varietà e la
bellezza del paesaggio lasciano senza fiato. Il colore delle rocce, il verde
dei prati e degli alberi da frutto, le montagne di sfondo, i fiumi e i laghi
creano ad ogni angolo uno spettacolo diverso.
Il periodo passato
sotto l’Unione Sovietica ha imposto una regolamentazione all’economia del
paese, soprattutto per quanto riguarda agricoltura e allevamento, che ancora
oggi sono la forza trainante del sistema economico kirghiso; ma nonostante
questo, la cultura nomade è così forte e da non essere stata sradicata ed
ancora oggi moltissime persone conducono questo stile di vita in mezzo alle
montagne.
I nomadi vivono in
tende chiamate yurta, in tutto e per tutto simili alle tende mongole. La
pratica nomade ha permesso di sviluppare nel tempo queste piccole abitazioni,
decorate con tappeti e strisce di feltro fatti a mano, prendendo il meglio
dall'esperienza di molti secoli. Le tribù kirghise, occupate con l'allevamento
di bestiame in montagna, elaborarono il miglior tipo di abitazione
trasportabile che si smonta, si sposta su animali da soma e viene nuovamente
sistemata, il tutto nel modo più facile possibile. Le yurta tradizionali
venivano coperte di grasso per essere impermeabilizzate, oggi si usano teli di
plastica.
La maggior parte
dei pastori sono giovanissimi: sono infatti poco più che bambini a spostare
cavalli e vitelli dai pascoli alle stalle. Verso sera se ne vedono molti:
alcuni non arrivano a mettere i piedi nelle staffe. Si divertono a mettersi in
mostra mentre si passa loro vicino: si alzano in piedi sulla sella, scendono
facendo capriole.
Lungo le strade le
persone che incontro sono aperte e cordiali, forse poco abituate a vedere
persone provenienti da un paese diverso. Nei villaggi i bambini più piccoli
salutano sorridenti, mentre gli uomini si avvicinano per stringere la mano; è
una stretta vigorosa che trasmette tutto il lavoro e la fatica che sopportano
quelle mani. Gli adulti sorridono meno dei bambini, ma nessuno manca di fare un
cenno.
La cultura kirghisa ruota intorno al cavallo. Il cavallo è considerato ancora
un mezzo fondamentale, usato per gli spostamenti, per il lavoro, per la carne e
per il latte e quindi una creatura preziosa.
La maggior parte
dei cavalli presenti sono asiatici e autoctoni: piccoli e piuttosto magri, ma
resistenti e abituati al clima mutevole del Kirghizistan. Man mano che ci si
sposta verso sud, specialmente nei pascoli più alti si trovano cavalli diversi:
molti sono cavalli grigi o paint, che nell’aspetto hanno poco a che fare con il
cavallo kirghiso.
L’utilizzo del
cavallo è legato indissolubilmente a molte delle tradizioni del Kirghizistan,
basti pensare che la bevanda nazionale, il kumys, è latte di giumenta fermentato.
Nelle vallate e sui pascoli non è raro incrociare le cavalle legate insieme ai
propri puledri mentre vengono munte dalle donne dei villaggi. Anche i denti da
latte dei puledri vengono usati per decorare i tappeti di feltro appesi
all’interno delle yurta e delle abitazioni.
Perfino i balli
tradizionali prendono ispirazioni dal modo di andare a cavallo: la danza tipica
kirghisa è il Kara Jorgo, che si traduce con “cavallo nero” e mima i movimenti
di un cavaliere intento a spronare a correre il proprio cavallo.
Una delle
tradizioni di cui i kirghisi vanno più fieri è la caccia con le aquile, un
metodo che si tramanda di generazione in generazione da molto tempo. I
cacciatori con le aquile sono considerati custodi di una tradizione antica e
quindi vengono stimati e rispettati dal resto della popolazione. Questi
cacciatori rischiano la propria vita per andare a catturare le aquile già
adulte sulle montagne o portare via i pulcini dal nido. Gli esemplari adulti
vengono preferiti perché hanno già imparato a cacciare naturalmente. Vengono
poi addomesticate ed allenate per cacciare in modo controllato, vale a dire
senza mangiare la preda e senza aggredire i cani da caccia che aiutano
nell’operazione di recupero. L’aquila serve più che altro ad attaccare e uccidere
la preda, che può essere una volpe, uno sciacallo, una lince o persino un lupo.
Finita la loro carriera vengono rimesse in libertà.
Lungo i pascoli e
le rive dei laghi si vedono gareggiare cavalli testa a testa, o è ancora più
facile vedere qua e là i pozzi di argilla che vengono usati come “canestri” per
il Kok-boru, una sorta di polo a cavallo che consiste nel rubare all’avversario
la carcassa di una pecora e fare punto proprio dentro uno dei canestri. Questi
sono solo alcuni dei modi che usano i pastori più giovani per passare la
giornata sui pascoli quando non sono impegnati a radunare gli animali.
Il Kirghizistan è
un paese ricchissimo di tradizioni antiche, provenienti da culture diverse,
essendo un paese centrale e territorio di passaggio. Questo ha influenzato non
solo la cultura e la lingua, ma anche la cucina. I piatti tipici sono
esattamente quello che mi aspetto da un paese che è stato crocevia di
tradizioni e popolazioni diverse: si trovano spaghetti molto simili a quelli
cinesi, piatti molto speziati, riso e zuppe. Ma c’è un ingrediente che non
manca mai: la carne. La carne può essere di pecora, manzo o cavallo, questo
anche a seconda di quanto si ritiene importante e gradita la persona a cui si
serve il piatto. Il tè caldo è un altro elemento immancabile: tradizione vuole
che la tazza non venga mai riempita fino all’orlo, perché l’ospite ne chieda
ancora e venga servito più volte durante la sua permanenza.
Quello che mi porto a casa da questo viaggio, oltre
all’incredibile bellezza e varietà del territorio, è una riflessione importante
sullo stile di vita che conduce questo popolo. Così diverso dal mio, eppure
così dignitoso e votato all’essenzialità, in cui tutto si incastra
perfettamente. Conserverò il ricordo di una cultura antica, di un popolo e di
una terra che sono duri, veri, ma pieni di dignità e orgoglio, di paesaggi
incontaminati ed autentici, come la gente che li abita. Almeno fino ad ora.
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