SOMMARIO

Anno XII
Numero 21
Febbraio 2020

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ARCHIVIO

 

 

La scoperta della polvere da sparo
di Bruno Ghibaudi

Attribuita a un monaco tedesco del Trecento, in realtà la polvere pirica era già nota duemila anni avanti Cristo ai cinesi e agli indiani. Furono tuttavia i greci che per primi l’usarono a scopo offensivo, ottenendo un miscuglio incendiario chiamato «fuoco greco». Con bombarde e archibugi comparve sui campi di battaglia nel XIV secolo soppiantando le armi bianche e rivoluzionando l’arte della guerra.

Una tradizione diffusa ma non esatta, attribuisce l'invenzione del­la polvere da sparo a Berthold Schwartz, un monaco francescano nato a Friburgo intorno al 1310 e vissuto per qualche tempo in un monastero della Selva Nera, dove si interessò più dei misteri dell'al­chimia che di quelli della fede.
In realtà la polvere era già nota fin da epoche remote, sebbene i po­poli che ne conoscevano il segreto la usassero principalmente per sco­pi incendiari e non per esplosioni. Sembra che già duemila anni prima di Cristo i cinesi e gli indiani adoperassero una miscela finemente pol­verizzata di torba (carbón fossile di origine vegetale) e di salnitro (ni­trato di potassio, un sale bianco che si accumula in efflorescenze sui muri umidi) per preparare fuochi d'artifìcio o per incendiare materiali di difficile innesco.
Quasi sicuramente furono i Per­miani di Ciro (VI sec. a. C.) a por­tare la miscela in Asia Minore. Gli arabi se ne impadronirono quasi subito e la usarono largamente. For­se è merito dei loro alchimisti se la miscela base di carbone e di salnitro venne arricchita con lo zolfo, che divenne un ingrediente fondamentale della polvere pirica. I gre­ci, da parte loro, aggiunsero colo­fonia e altre sostanze combustibili alla polvere, ottenendo quel micidia­le miscuglio ricordato dalle antiche cronache come «fuoco greco». Que­sta miscela, appiccicaticcia, veniva incendiata prima di essere scagliata sui nemici: non era spenta dall'ac­qua e poteva essere neutralizzata solo parzialmente con la sabbia.

La prima formula scritta della pol­vere pirica, conosciuta anche come “polvere nera” per l’aspetto che le conferiva il carbone, appare nel Liber ignium a Marco Graeco, un trattato sulla preparazione delle mi­scele incendiarie e sui mezzi per scagliarle sui nemici dal mare e da terra. Di Marcus Graecus, l’autore, non possediamo alcun’altra indica­zione al di fuori dell’origine, rivela­ta quasi sicuramente dal cognome. Il libro, scritto in latino fra il 1185 e il 1225 d.C., fu tradotto in italiano all’inizio del 1400. Fra le varie ri­cette di miscele, ecco quella della polvere pirica: «Recipe libbre una di zolfo vivo, due di carbone di ti­glio ovvero di ciliegio, libbre sei di sale petroso, trita tutto minutamen­te in pietra di marmo, quindi ripo­ni polvere a beneplacito nella can­na da volare o da far tuono ».
Il «sale petroso», che figura co­me uno dei componenti più volu­minosi, è il salnitro. La «canna da volare» è la progenitrice del mis­sile moderno, cioè un razzo rudimentale composto da un grande tu­bo di bambù imbottito di polvere, parte della quale si bruciava per generare i gas necessari a spingere la canna volante verso l'obiettivo e l’altra parte per incendiarlo.  La «canna da far tuono» è invece mol­to verosimilmente un antenato del cannone.
Nel 1242 il filosofo inglese Rug­gero Bacone descrisse in un suo trattato gli effetti incendiari dellapolvere pirica. Ciò bastò perché nei secoli successivi i suoi compatrioti gli attribuissero il merito dell’inven­zione. In realtà fino all’inizio del secolo XIV la polvere pirica venne usata quasi esclusivamente per in­cendiare in maniera rapida e vio­lenta. In quell’epoca qualcuno ebbe l'idea di utilizzare l’enorme spinta dei gas prodotti dall'incendio della polvere nera in un tubo chiuso ad un’estremità per spingere lontano un proiettile di pietra o di metallo. Ma anche quest’intuizione - cioè proprio quella che trasformò la polvere pi­rica in polvere da sparo - non ha un padre unico e conosciuto.

Secondo alcune cronache del '400, bombarde e mortai sarebbero stati già impiegati dalle truppe tedesche nell'assedio di Cividale (1331), in quello di Cambrai (1339), di Quesnoy e di Terni (1340), nelle batta­glie di Caors e di Tournai (1345), di Crécy (1346) e in altri eventi bellici successivi. I risultati distruttivi delle nuove armi erano però modesti e gli effetti delle canne tonami più psi­cologici che pratici.
Le bombarde erano grossolane, con canna corta e irregolare; i proiettili - di pietra - avevano una sfericità approssimativa che non poteva garantire una buona tenuta fra canna e proiettile per sfruttare al massimo la spinta propulsiva della polvere. Il miscuglio esplosivo era il più delle volte ottenuto a caso, con un rendimento irregolare e mol­to inferiore a quello che la polvere avrebbe fornito in futuro. I colpi che andavano a segno erano rarissimi e la precisione di tiro era de­terminata dal capriccio del caso più che dall'abilità degli artiglieri.

Verso il 1370 comparve alla ri­balta Berthold Schwartz. Al mona­co tedesco spetta il merito di aver scoperto le proporzioni migliori per i tre ingredienti fondamentali della polvere pirica (10% di zolfo, 15% di carbone e 75% di salnitro) e di aver messo a punto i procedimenti tecnici più adatti per fornire bocche da fuoco lunghe e regolari, precise nel tiro e di lunga gittata. Nel 1373 Berthold Schwartz abbandonò il convento della Selva Nera e an­dò a offrire i suoi servigi alla Re­pubblica Veneta, a quell’epoca una delle più battagliere d’Europa. A Ve­nezia Schwartz trovò abbondanza di mezzi per realizzare i suoi proget­ti: nel 1377 la fonderia da lui di­retta sfornava i primi affusti e i pri­mi proiettili di metallo, mentre la fabbrica di polvere da lui appron­tata produceva l’esplosivo più po­tente dell’epoca. Due anni dopo i nuovi cannoni veneziani, ai quali erano stati assegnati nomi fantasiosi come basilisco, falcone, passavolante, girifalco, furono impiegati con successo nell’assedio di Chioggia. L'esplosione della polvere veniva pro­vocata innescando col fuoco la stes­sa polvere nera che fuoriusciva dal fondo della canna attraverso uno stretto camino verticale. Di qui la primitiva denominazione di «armi da fuoco», che è rimasta inalterata anche quando l’innesco a fuoco è stato sostituito da quello a scintil­la e infine da quello a capsula.
In breve tempo Schwartz accumu­lò ricchezze, onori e invidia. Così nel 1388 fu accusato - forse ingiu­stamente - di esosità e di altri mi­sfatti che la Serenissima puniva con la morte. Anziché sul palco delle decapitazioni, come i condannati comuni, l’ex monaco ebbe tuttavia il privilegio di esplodere legato ad un barile di polvere su una chiatta al centro della laguna.

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fucile Kentucky a percussione, con tabacchiera fucile di canna lunga usato anche dai trapper
nella foto si notano anche una serie di coltelli indiani con foderi da cerimonia


Le armi da fuoco si diffusero co­munque piuttosto lentamente. L’im­perfezione tecnica con cui erano co­struite e l’imperizia con cui erano maneggiate impediva loro di rappresentare una vantaggiosa alternati­va alle tradizionali armi bianche. Inoltre la loro pericolosità obbliga­va gli artificieri a precauzioni che ne limitavano  l’impiego. La situazio­ne non mutò neppure quando, at­torno al 1440, apparvero le prime armi da fuoco individuali: l'archi­bugio, lo scoppietto e la pistola.
Es­se risultavano pesanti, lunghe da ca­ricare e assai meno efficaci di una freccia o di una spada. Inoltre il mondo cavalleresco, che faceva del coraggio individuale e della forza fisica 0 fulcro dei valori in battaglia, considerò le prime armi da fuoco con ostilità perché sovvertivano la tradizione variando artificiosamente i risultati delle battaglie.

Quando però la tecnica cominciò a produrre armi migliori, e la chi­mica nascente riuscì ad accrescere il potere esplosivo della polvere anche i difensori della tradizione si arre­sero. Una svolta importante fu la scoperta della granitura (1450 circa), cioè del procedimento che permet­teva di produrre l’esplosivo in gra­nuli grossi e distinti. E infatti l’on­da esplosiva si propaga più rapida­mente e più completamente fra i grani, facendoli deflagrare con mag­giore potenza. I vantaggi della gra­nitura furono subito evidenti, tant’è vero che nel 1500 il prezzo del­la polvere da sparo cresceva con le dimensioni dei grani.
Nei secoli successivi i metodi per produrre la polvere e per migliorarne le caratteristiche si svilupparono pa­rallelamente al progresso della scienza e della tecnica. Tuttavia la com­posizione tradizionale continuò a ri­manere quella di Berthold Schwartz: carbone, salnitro e zolfo. Potenze esplosive superiori vennero raggiunte solo quando la chimica incominciò a scoprire le vere leggi della combu­stione rapida e dell'esplosione. Il primo risultato positivo lo si ebbe nel 1785, quando il chimico francese Louis Berthollet sostituì il sal­nitro con il clorato di potassio, ot­tenendo un esplosivo assai più po­tente della polvere da sparo. Inizia­va così l'era degli esplosivi chimici «diversi», che ebbe le sue tappe più importanti nel fulminato di mercu­rio, nella nitroglicerina, nella dina­mite e via via fino all'atomo.

Oggi la polvere pirica viene im­piegata solo per i colpi a salve e per taluni usi civili. Sul campo di battaglia, dove la sua apparizione de­terminò in passato una profonda rivoluzione, è stata ormai sostituita da esplosivi che con essa non hanno più nulla in comune. È stato un tragico scambio di consegne, un im­ponderabile impulso che sta spin­gendo l’umanità verso un destino oscuro e gravido di paure.


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