SOMMARIO

Anno XIV
Numero 23
Maggio 2022

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ARCHIVIO

 

 

 

 

Il prezzo dell'obbedienza
a cura di Nunzio Raffaele di Gioia

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Era la mattina del 12 febbraio 1972, un sabato.

La brigata alpina Orobica era impegnata nelle manovre invernali quando, dopo una notte di tormenta, svegli dalle tre, all’alba verso le cinque una formazione di alpini mosse dalla malga Villalta (Oberdörfer in tedesco) ove aveva pernottato,  provenendo da San Valentino alla Muta.

Il programma dell’esercitazione prevedeva di scavalcare la forcella a quota 2370 tra la valle Villalta  (Oberdörfetal  nelle cartine) e quella di Slingia, per poi scendere verso Malles.

Questa formazione di alpini della compagnia 49ª del Tirano (chiamata 49° di Dio), del 5° reggimento alpini, con sede a Malles,  integrata da altri dell’Edolo e del Morbegno e comandata dall’allora tenente (a due stelle) Gianluigi Palestro, subito dopo la partenza, ad appena circa 200 metri di distanza dalla malga, si trovò nel punto di scarico di una grande slavina staccatasi dal monte Vernun (che si erge per oltre 700 metri sopra il tratto colpito).

Per la gente del luogo, coloro che conoscono bene la zona, era troppo alto il pericolo di slavine in quel periodo dell’anno, ma l’esecuzione degli ordini e il successo dell’esercitazione studiata a tavolino erano considerati prevalenti. 

Fatti analoghi avvenuti in queste zone negli anni precedenti, non sono stati da esempio. I soldati  continuano a morire, obbedendo ad ordini superiori ai quali non possono opporsi.

Lo scavalcamento della forcella era fortemente sconsigliato, ed il comandante  di altra compagnia si era rifiutato di procedere. Un reparto di artiglieri alpini avrebbe dovuto fare il medesimo percorso; era arrivato in zona il 5 febbraio, ma in considerazione del tempo e dei rischi, e anche per qualche percezione o presagio, il comandante aveva deciso di fermare il reparto in attesa di miglioramenti del tempo, nonostante gli ordini superiori, ed erano ancora fermi dopo una settimana, quando arrivò il Tirano, che li sorpassò e decise di andare avanti comunque.

Gli alpini erano partiti con un supporto di dieci muli, con viveri e attrezzature, ma a causa della neve alta e del maltempo i muli non riuscivano a procedere, quindi erano stati mandati indietro in caserma, e gli alpini erano rimasti senza viveri e senza attrezzature. Dopo la tragedia, si erano  accorti che le radio non erano funzionanti.   Gli alpini  avevano il cordino antivalanga in tasca invece che in mano; nessuno aveva organizzato e ordinato una minima precauzione.

E così, per loro, la distanza che passa tra la vita e la morte, in questi casi la decide il destino. Fa la differenza, l'essere anche solo 10 metri, prima o dopo un compagno in marcia.

Sette tra gli alpini travolti persero la vita: Romeo Bellini (Foresto Sparso – BG); Gianfranco Boschini (Suisio – BG); Luigi Corbetta (Sovico – MI ); Valdo Del Monte (Trento); Domenico Marcolongo(San Giovanni Lupatoto – VR); Duilio Saviane (Broz di Tambre d’Alpago – BL) e Davide Tognela (Stazzona di Villa di Tirano – SO).   Particolarmente tragico il destino di Duilio Saviane, il più anziano, morto a 27 anni senza poter vedere la sua bambina che nacque  due mesi dopo la tragedia.

All’epoca i locali montanari dei masi e dei paesi  raccontavano di aver raccomandato di evitare la forcella  in quel  periodo, con neve fresca appena posata su fondo ghiacciato, ed anche i vigili del fuoco volontari e  il soccorso alpino segnalarono che gli alpini non avevano le dotazioni minime indispensabili per soccorrere i compagni sotto la neve, ma gli ordini del comando vennero rispettati per poter portare a termine con successo l’esercitazione programmata. 

Gli alpini sopravvissuti raccontano che la slavina si era staccata subito dopo che il comandante  aveva gridato  l’alt e il rientro alla malga.   I primi soccorsi sono arrivati proprio dagli artiglieri accampati da una settimana, prima della malga; un gruppo di esploratori stava verificando le condizioni del percorso, e quando videro la valanga aiutarono i soccorsi.

Con grande rammarico  si parla ancora delle scarse precauzioni prese,  e anche  della carenza di pale da neve che avrebbero consentito probabilmente di salvare un maggior numero di alpini sepolti dalla neve, alcuni estratti ancora vivi, ma troppo tardi.

I funerali solenni furono celebrati nella Caserma Rossi di Merano, sede del 5° reggimento alpini, con jeep telecomandate e passaggio di aereo durante la cerimonia, ma ai sopravvissuti della 49° venne proibito di partecipare e di parlare con le famiglie dei caduti;  sette alpini di leva, in servizio non volontario, tornarono alle loro famiglie nelle bare.

Indagini e processi giudiziari si sono succeduti per oltre 10 anni per ricostruire le fasi della disgrazia e dei successivi interventi di soccorso; il processo ritenne responsabile lo Stato, ma non gli ufficiali.

Sul luogo della strage è stata posta una croce e poco distante una cappella, dove i familiari tengono periodicamente una cerimonia commemorativa; quasi come se la montagna volesse ricordare, anzi ribadire che quello non è un posto sicuro, la cappella è frequentemente danneggiata dalle valanghe.

Dopo 50 anni,  in merito alla tragica vicenda prevale ormai la rassegnazione. Per tutti gli Alpini del Tirano, per tutti gli Alpini, resta la memoria di sette giovani vite spezzate da una fatalità che poteva essere forse evitata e il coraggio di chi portò loro soccorso,  salvandone altri 15.

link per ascoltare la testimonianza diretta di due sopravvissuti: 

https://www.spreaker.com/user/11104235/12-febbraio-1972-malga-villalta-intervis_3

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[fotografie dalla pagina del Tirano]

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