Era la mattina del 12 febbraio 1972, un sabato.
La brigata alpina Orobica era impegnata nelle manovre invernali quando,
dopo una notte di tormenta, svegli dalle tre, all’alba verso le cinque
una formazione di alpini mosse dalla malga Villalta (Oberdörfer in
tedesco) ove aveva pernottato, provenendo da San Valentino alla
Muta.
Il programma dell’esercitazione prevedeva di scavalcare la forcella a
quota 2370 tra la valle Villalta (Oberdörfetal nelle
cartine) e quella di Slingia, per poi scendere verso Malles.
Questa formazione di alpini della compagnia 49ª del Tirano (chiamata
49° di Dio), del 5° reggimento alpini, con sede a Malles,
integrata da altri dell’Edolo e del Morbegno e comandata dall’allora
tenente (a due stelle) Gianluigi Palestro, subito dopo la partenza, ad
appena circa 200 metri di distanza dalla malga, si trovò nel punto di
scarico di una grande slavina staccatasi dal monte Vernun (che si erge
per oltre 700 metri sopra il tratto colpito).
Per la gente del luogo, coloro che conoscono bene la zona, era troppo
alto il pericolo di slavine in quel periodo dell’anno, ma l’esecuzione
degli ordini e il successo dell’esercitazione studiata a tavolino erano
considerati prevalenti.
Fatti analoghi avvenuti in queste zone negli anni precedenti, non sono
stati da esempio. I soldati continuano a morire, obbedendo ad
ordini superiori ai quali non possono opporsi.
Lo scavalcamento della forcella era fortemente sconsigliato, ed il
comandante di altra compagnia si era rifiutato di procedere. Un
reparto di artiglieri alpini avrebbe dovuto fare il medesimo percorso;
era arrivato in zona il 5 febbraio, ma in considerazione del tempo e
dei rischi, e anche per qualche percezione o presagio, il comandante
aveva deciso di fermare il reparto in attesa di miglioramenti del
tempo, nonostante gli ordini superiori, ed erano ancora fermi dopo una
settimana, quando arrivò il Tirano, che li sorpassò e decise di andare
avanti comunque.
Gli alpini erano partiti con un supporto di dieci muli, con viveri e
attrezzature, ma a causa della neve alta e del maltempo i muli non
riuscivano a procedere, quindi erano stati mandati indietro in caserma,
e gli alpini erano rimasti senza viveri e senza attrezzature. Dopo la
tragedia, si erano accorti che le radio non erano
funzionanti. Gli alpini avevano il cordino
antivalanga in tasca invece che in mano; nessuno aveva organizzato e
ordinato una minima precauzione.
E così, per loro, la distanza che passa tra la vita e la morte, in
questi casi la decide il destino. Fa la differenza, l'essere anche solo
10 metri, prima o dopo un compagno in marcia.
Sette tra gli alpini travolti persero la vita: Romeo Bellini (Foresto
Sparso – BG); Gianfranco Boschini (Suisio – BG); Luigi Corbetta (Sovico
– MI ); Valdo Del Monte (Trento); Domenico Marcolongo(San Giovanni
Lupatoto – VR); Duilio Saviane (Broz di Tambre d’Alpago – BL) e Davide
Tognela (Stazzona di Villa di Tirano – SO). Particolarmente
tragico il destino di Duilio Saviane, il più anziano, morto a 27 anni
senza poter vedere la sua bambina che nacque due mesi dopo la
tragedia.
All’epoca i locali montanari dei masi e dei paesi raccontavano di
aver raccomandato di evitare la forcella in quel periodo,
con neve fresca appena posata su fondo ghiacciato, ed anche i vigili
del fuoco volontari e il soccorso alpino segnalarono che gli
alpini non avevano le dotazioni minime indispensabili per soccorrere i
compagni sotto la neve, ma gli ordini del comando vennero rispettati
per poter portare a termine con successo l’esercitazione
programmata.
Gli alpini sopravvissuti raccontano che la slavina si era staccata
subito dopo che il comandante aveva gridato l’alt e il
rientro alla malga. I primi soccorsi sono arrivati proprio
dagli artiglieri accampati da una settimana, prima della malga; un
gruppo di esploratori stava verificando le condizioni del percorso, e
quando videro la valanga aiutarono i soccorsi.
Con grande rammarico si parla ancora delle scarse precauzioni
prese, e anche della carenza di pale da neve che avrebbero
consentito probabilmente di salvare un maggior numero di alpini sepolti
dalla neve, alcuni estratti ancora vivi, ma troppo tardi.
I funerali solenni furono celebrati nella Caserma Rossi di Merano, sede
del 5° reggimento alpini, con jeep telecomandate e passaggio di aereo
durante la cerimonia, ma ai sopravvissuti della 49° venne proibito di
partecipare e di parlare con le famiglie dei caduti; sette alpini
di leva, in servizio non volontario, tornarono alle loro famiglie nelle
bare.
Indagini e processi giudiziari si sono succeduti per oltre 10 anni per
ricostruire le fasi della disgrazia e dei successivi interventi di
soccorso; il processo ritenne responsabile lo Stato, ma non gli
ufficiali.
Sul luogo della strage è stata posta una croce e poco distante una
cappella, dove i familiari tengono periodicamente una cerimonia
commemorativa; quasi come se la montagna volesse ricordare, anzi
ribadire che quello non è un posto sicuro, la cappella è frequentemente
danneggiata dalle valanghe.
Dopo 50 anni, in merito alla tragica vicenda prevale ormai la
rassegnazione. Per tutti gli Alpini del Tirano, per tutti gli Alpini,
resta la memoria di sette giovani vite spezzate da una fatalità che
poteva essere forse evitata e il coraggio di chi portò loro
soccorso, salvandone altri 15.
link per ascoltare la testimonianza diretta di due sopravvissuti:
https://www.spreaker.com/user/11104235/12-febbraio-1972-malga-villalta-intervis_3
[fotografie dalla pagina del Tirano]
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