La regola che non vogliamo udire – ogni vita è
equilibrata da una morte – ci viene offerta subito, nel primo racconto del
ciclo. La pantera ha ammazzato “un toro, e bello grasso”, affinché al “cucciolo
inerme” sia garantita la vita. Sul cucciolo, però, pende l’eredità di
quell’assassinio: in noi rivive il destino di chi per noi è stato
sacrificato. A quella morte ne seguono altre, ciascuna è oscena
sapienza, spettro che hai vinto e che ti toglie un brandello di vita. Si è
vivi, in effetti, per precorrere il fiato della morte. L’ultima scena
di Apocalypse Now vede Martin Sheen/Willard che accoppa con un
machete Marlon Brando/Kurtz mentre viene immolato un bue. Il sangue è l’acqua
battesimale ed è l’estrema unzione: una legge più grande, eppure consona al
roveto, ci stringe; siamo pur sempre il popolo che mangia il corpo di un dio;
guai a chi delega il ricordo del morto a un manifesto funebre, guai a chi non
incorpora in sé la vita del morto, la catena delle conseguenze e delle
consegne.
Il principio, in verità – lo dico & ridico – fu un
nome. Anzi, una combinazione di nomi. L’edizione del Libro della
giungla che avevo a casa, tenuta insieme con un nastro adesivo
marrone, è degli anni Cinquanta. Spiccavano due nomi: Kipling,
in cima, contornato d’azzurro, e, rosso, in basso, più grosso, Mowgli.
Come se Kipling e Mowgli fossero la stessa persona, o meglio, cifre che mi
avrebbero concesso altri mondi, un coraggio duraturo, una nobiltà arborea. In
mezzo al libro, il ragazzo semisvestito apre, con un coltello, la bocca al
cobra, davvero enorme. Sul retro, lo stesso ragazzo cavalca una pantera nera.
Rudyard Kipling, scrittore di rude grandezza, precipitò
nella precocità – e lì si piantò per sempre, in quell’infanzia rabbiosa,
pronta, innocentemente, alla ferocia.
Il libro della giungla, che è il suo libro più grande, perché impavido,
vitale, con l’odore della gioia addosso, è pubblico nel 1894, quando l’autore –
che nasce il 30 dicembre del 1865 – ha ventotto anni. Il Nobel per la letteratura, come si sa, lo coglie nel
1907, poco prima di compiere quarantadue anni. Massone,
sapiente, teorico della poetica del “fardello dell’uomo bianco”, Kipling ha
avuto un successo esorbitante; da decenni la sua fama è screziata. Kipling, in
effetti, portavoce dell’Occidente imperiale – così la vulgata con le vipere
intorno – è poco utile alla buona causa dei puri di cuore, è uomo di un altro
tempo, di un altro mondo. Mowgli, tuttavia, continua, con inaudita forza, a uccidere
tigri in libreria. Frutto, credo, non di lungimiranza ma di fraintendimento: le
riduzioni animate o filmiche di quel provvidenziale capolavoro sfiorano il
grottesco, come tramutare Moby Dick in un pesce rosso.
Mowgli, il Ranocchio che diventa Signore della
Giungla, resta il bambino rifiutato da tutti, rigurgitato dal destino. Orfano,
fin dal primo racconto, I fratelli di Mowgli, è a rischio di morte:
nessuno, tranne la remota bontà di Babbo Lupo e di Mamma Lupa, comunque
obbligati alla Legge della Giungla, vuole occuparsi di lui; in molti vogliono
mangiarlo. Prelibata è la carne dell’uomo, lo sterminatore grato ad ogni
vendetta. Mowgli conosce il linguaggio di tutte le creature della Giungla, e
agita il fuoco, “Fiore Rosso”, è “il ladro del fuoco” evocato da Rimbaud nella
“Lettera del veggente” inviata a Paul Demeny, che si dirama in pianto. “E
allora Mowgli cominciò a sentire qualcosa che faceva male dentro, male come non
aveva mai sentito in vita sua, e trattenne il respiro e singhiozzò, e le lacrime
gli solcarono il viso”: dal primo racconto all’ultimo, La corsa di
primavera, una sorta di ipnotico requiem, Mowgli piange e uccide, deve
lottare per restare nella Giungla da cui tutti – compresa la sua natura – lo
vogliono sottrarre. Il pianto, però, non lo radica alla foresta; è la stima
della sua leggenda.
In modo più radicale di Alice, di Peter Pan, di Jim
Hawkins, Mowgli rappresenta la rivolta al regno umano, la ribellione
dell’infanzia, la pretesa del sogno eterno, barbarico. Mowgli è l’estro
dell’anomalia, il grido alieno, il bambino divino, estraneo al ciclo della
copula, della dissipazione, l’essere che interrompe il sacrificio – nel cuore
della vita, è vergine di relazioni –, amico di tutti e di nessuno, capace, per
sovrappiù di purezza, nel massacro. Leggete, per lo meno, Cane
rosso, racconto di miliare crudeltà. Grazie allo stratagemma, Mowgli riesce
a fare sterminio di una muta di dohle, “il rosso cane cacciatore
del Dekkan”, specie di locusta con fauci letali, che tutto divora, senza
distinzione, e che tiene il Popolo Libero nel giogo della paura. Mowgli,
geniale nel convertire la debolezza in superiorità, attrae la massa rubina di
cani dove spopola il Piccolo Popolo, nugolo di api selvatiche, pericolosissime.
I cani sono sopraffatti dalle api; alcuni precipitano nel fiume Waingunga, dove
il piccolo figlio dell’uomo si getta, avido di vittime, manovrando il coltello.
“Mowgli si tuffò di nuovo, e di nuovo un dhole fu risucchiato, per riemergere
morto”. La mattanza è completa: Mowgli salva la giungla dalla disfatta, eppure
la giungla lo ricambia ricordandogli che lui è altro, è uomo. “Tu sei in tutto
e per tutto uomo, altrimenti il Branco sarebbe fuggito davanti ai dhole. A te
debbo la vita, e oggi tu hai salvato il Branco come una volta io ho salvato te.
Adesso tutti i debiti sono pagati. Va’ dal tuo popolo. Te lo ripeto, pupilla
dei miei occhi, questa caccia è conclusa. Va’ dal tuo popolo”, sussurra Akela,
guida dei lupi, moribondo, morendo. Mowgli è l’esito di un patto, contratto
tempo prima: resta straniero, uno colpito dalla grazia.
Mowgli,
leggenda giovane, disattende le parole di Akela, resta nella giungla per altri
due anni: pratico degli uomini, preferisce le bestie. Crede, forse, che un
sogno sia vetro, che si possa spaccare, che pezzi di vetro possano sostituire
l’iride. Il sangue unisce, il sangue scinde. La pantera uccide ancora, per
liberarlo, per costringerlo, “un toro al secondo anno… il Toro che ti affranca.
Ora tutti i debiti sono saldati”. Una legge spietata, economia di morti, lega
Mowgli a lasciare la giungla. Nessuno potrà scrivere la vita di Mowgli da
adulto: a chi importerebbe? “Le stelle affievoliscono… Dove faremo tana oggi?”,
dice uno dei lupi, “fiutando la brezza dell’alba”. L’uomo costruisce il giorno
come un vasaio, il lupo lo insegue.
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