Sono
solo un soldato, un vecchio soldato dal cuore di
pietra. Assisto impassibile al lento approssimarsi
della fine. Io sono nato, per la fine – la mia e
l’altrui – sin dall’inizio. Mai stata altro,
la mia lunga vita, che quest’attesa di secoli.
Aspettare: la mia fine disciplinata, lungo la mia
pacata esistenza metodica, l’animale metabolismo
del nutrirsi, del ripararsi dal freddo che spira
dai monti alla frontiera.
Obbedire,
e fingere.
Fingere
di non aver paura, anche se sei di pietra,
interamente: di pietra ogni vertebra, ogni
lastrone della scorza rocciosa, ogni fibra del
corpo indurito dall’assenza di calore, da questa
eterna privazione rassegnata.
Crescono
erbe sul mio largo petto: minimo e tenero
ornamento, le spettina la brezza. Non dureranno;
voleranno via, sconvolte, insieme alla zolla dove
si sono provvisoriamente radicate; esploderanno,
insieme a tutto il resto, alla prima bordata, al
tuono furioso del primo rogo crepitante.
Erbette,
fiori. A noi soldati fa ridere amaro quel genere
di naturale carità. Svenevoli farfalle: le
conosco. Piccole ali che anche qui da noi
sorvolano gli spalti trincerati nei giorni molli,
durante l’interregno della breve estate; nulla
che possa intenerirci e perforare la corazza,
nulla che scenda fino al cuore incarbonito
dell’abisso che ci incatena a terra.
Siamo
soltanto prigionieri in uniforme. Siamo qui per
uccidere, ovvero per morire. Stiamo infatti
morendo ogni giorno, lentamente: di pena e di
paura. Qui si muore senza sparare un colpo. Si
entra con giubba e stivali in una lunga morte
viva, una cancrena grigia che non lascia scampo.
Siamo già tutti morti, dal primo giorno. Stolidi
e sfortunati,
siamo i granatieri della paura. Abbiamo
gettato la vita in un pozzo. Non c’è ritorno,
è così evidente. Nessuno dura, neppure i signori
ufficiali. Loro, semplicemente, cedono al mal
sottile della luna: vanno via col cervello,
svaniscono. Passano la vita a elaborare ordini che
non trasmetteranno mai, nella vana attesa del
nemico alle porte. Tutti sappiamo che il nemico
non verrà, perché ha paura di noi. Siamo tutti
allevatori di paura, sui due versanti della stessa
notte.
Non
serve che il nemico arrivi: il nemico è in noi,
nei nostri panni rattoppati, nelle nostre miscele
di polveri, nei nostri schioppi da banditi, da
assassini autorizzati, addestrati dallo Stato. Il
nemico è subdolo, è sordido, è mancino.
Galleggia nauseabondo nella broda schifa che ci
passano, per inzupparci pane secco. Il nemico ci
conosce bene: sa che non sarà necessario
sacrificare un solo uomo. Faremo da soli,
basteremo noi. Moriremo di fame, di tifo, di
pellagra. Troveremo il modo di distruggerci, pian
piano. Ci scioglieremo nella calce viva del
ricordo, sanguinando al pensiero di com’eravamo,
prima che ci scaraventassero quaggiù.
Non
abbiamo famiglia: non abbiamo moglie, né figli
che ci possan sopravvivere. Per un soldo di rancio
abbiamo scelto di nostra volontà questo suicidio,
questa carneficina. Certo, non è facile ammazzare
cristiani. Bisogna prima prepararsi,
scristianizzarsi, degradarsi nella ripetizione
ottusa di un rituale quotidiano. E’ la scienza
quasi esatta della nostra prestigiosa macelleria.
E’ quello che vogliono i nostri comandanti, a
loro volta schiavi dei signori. Gli ordini
cambiano, l’obbedienza no. Quel che rimane,
dopo, è solo ignobile poltiglia, ossa e sangue,
carne crepata senza un nome, senza la pietà di
una carezza.
Lo
sappiamo bene: il giorno che il nemico arrivasse
davvero, nessuno potrebbe giurare sulla nostra
resistenza. E’ vero, abbiamo spalle larghe di
granito, lombi protetti di pietra rinforzata, ma
dopo giorni di fuoco martellante, dopo intere
settimane di martirio, si perderebbero i calcoli
del miglior ingegnere: neppure l’ottimo
architetto della nostra morte saprebbe più dirci
l’ora esatta. E allora sarebbe meglio essere
farfalle, poter volare via. Di fronte
all’uragano ultimo, nell’inferno incendiario
delle detonazioni, non sapremmo proprio più che
farcene di tutte le nostre artiglierie, i nostri
pezzi famosissimi, i nostri cazzo di cannoni.
La
notte là fuori è dei lupi, che almeno vanno dove
vogliono, assetati di rapina, sbandando per
sentieri solo a loro conosciuti, improvvisando,
assecondando il fiuto. Noi invece l’abbiamo
organizzata, la rovina: una rovina grande,
trionfale. Per questo stiamo qui, e ci tocca
aspettare: qui, tra queste mura, in questo
spettrale monumento di terrore, armato fino ai
denti, eretto per difendere la terra di qualcuno.
La terra, sempre lei: la terra maledetta che
qualcuno si è preso per sé, purtroppo a nome
nostro, inaugurando un’era nuova: scomparsa la
vergogna, da allora sventola uno strano orgoglio
sull’oscenità della razzia.
Così,
davanti a noi si stendono bandiere: le stesse in
cui si avvolgono le bare. L’unica nostra breve
gloria ci attende all’osteria, tra vino e donne
di poco prezzo, merce adatta al nostro rango
infame. Ci fanno bere, ci lasciano sfogare per una
sera, appena il tempo di una manciata di monete:
è un lercio paradiso il nostro misero tesoro,
prezioso di mosto e sudore terrestre. Oblio
miracoloso ma brevissimo: poi ci preparano per la
battaglia. Un re cattivo viene a visitarci a notte
alta, nel fondo del sonno. Passa tra le camerate,
ci sfiora con mano guantata i capelli di stoppa.
Ci ama come fossimo bambini, figli, perché sa che
il sangue nostro è suo, è offerto in voto il
giorno dell’arruolamento.
Lo
giuro. L’abbiamo detto a voce alta, tutti
insieme. E mai condanna fu più volontaria e
irrevocabile. Mai giurare, dicevano il pazzo e il
buffone. Mai prestare giuramento: né per la
terra, né per il cielo. Giurare è sposare la
legge, l’unica in vigore: cedere l’anima e il
corpo per sempre, votarsi al più forte,
all’arbitrio elevato a religione. Pesa ancora la
memoria di questa terra nera, irta di forche da
cui pendevano disertori.
Eppure,
ognuno di noi sa di aver a sua volta disertato. Il
giuramento è un veleno segreto: in fondo al cuore
lo sappiamo, noi abbiamo disertato dall’umanità.
Per questo la odiamo così tanto. Siamo volpi
senza più coda, demoni derelitti e dilaniati
dall’invidia, pieni di rancore, ridotti a
mendicanti in uniforme, a patetici gaglioffi. Non
siamo più uomini: siamo fantasmi, obbedienti
assassini; consacrati al sovrano, per lui
uccidiamo a comando. E abbiamo nelle ossa il
livore degli altri, gli uomini liberi, che vanno
per strada e si credono innocenti. No, troppo
comodo. Nessuno è innocente, dove si festeggiano
soldati in parata, benedetti dalla croce e
acclamati da folle esaltate. Noi siamo soltanto i
prescelti, i sacerdoti della strage, gli
officianti. Nessuno può credersi al riparo: può
capitare a tutti, prima o poi, per obbligo o per
fame, di perdersi per sempre dentro una caserma,
dove si pratica l’arte più infelice.
Credete:
è così che si diventa come noi, di pietra. Ci si
arrende, per sempre. Si beve fiele, e si imparano
canzoni tristissime. Canzoni che sciolgono il
cuore, commuovendo tutti, ufficiali e fanti.
Quando cantiamo tutti piangono: persino il boia.
Tutti si struggono: civili, militari, donne. E’
il vecchio cuore, a piangere. Si ricorda di
quand’era ancora vivo. Poi le lacrime le asciuga
il vento della notte sul cammino di guardia,
nell’attesa dell’alba ennesima.
Pietra,
vi dico. E la pietra non dimentica. Son vecchio,
ormai, sono antico. Non ho voglia di vendette.
Lascio fare alla morte, quando vorrà venire. Ma
non chiedetemi di perdonare: verrà con me
all’inferno, chi ha potuto ridurmi così. Verrà
con me nel paradiso dei soldati, nell’ora
d’aria che spetta anche all’ultimo dei
condannati.
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