SOMMARIO

Anno III  numero 1
aprile 2011

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SONO SOLO UN SOLDATO

Giorgio Cattaneo

Sono solo un soldato, un vecchio soldato dal cuore di pietra. Assisto impassibile al lento approssimarsi della fine. Io sono nato, per la fine – la mia e l’altrui – sin dall’inizio. Mai stata altro, la mia lunga vita, che quest’attesa di secoli. Aspettare: la mia fine disciplinata, lungo la mia pacata esistenza metodica, l’animale metabolismo del nutrirsi, del ripararsi dal freddo che spira dai monti alla frontiera.

Obbedire, e fingere.

Fingere di non aver paura, anche se sei di pietra, interamente: di pietra ogni vertebra, ogni lastrone della scorza rocciosa, ogni fibra del corpo indurito dall’assenza di calore, da questa eterna privazione rassegnata.

Crescono erbe sul mio largo petto: minimo e tenero ornamento, le spettina la brezza. Non dureranno; voleranno via, sconvolte, insieme alla zolla dove si sono provvisoriamente radicate; esploderanno, insieme a tutto il resto, alla prima bordata, al tuono furioso del primo rogo crepitante.

Erbette, fiori. A noi soldati fa ridere amaro quel genere di naturale carità. Svenevoli farfalle: le conosco. Piccole ali che anche qui da noi sorvolano gli spalti trincerati nei giorni molli, durante l’interregno della breve estate; nulla che possa intenerirci e perforare la corazza, nulla che scenda fino al cuore incarbonito dell’abisso che ci incatena a terra.

Siamo soltanto prigionieri in uniforme. Siamo qui per uccidere, ovvero per morire. Stiamo infatti morendo ogni giorno, lentamente: di pena e di paura. Qui si muore senza sparare un colpo. Si entra con giubba e stivali in una lunga morte viva, una cancrena grigia che non lascia scampo. Siamo già tutti morti, dal primo giorno. Stolidi e sfortunati,  siamo i granatieri della paura. Abbiamo gettato la vita in un pozzo. Non c’è ritorno, è così evidente. Nessuno dura, neppure i signori ufficiali. Loro, semplicemente, cedono al mal sottile della luna: vanno via col cervello, svaniscono. Passano la vita a elaborare ordini che non trasmetteranno mai, nella vana attesa del nemico alle porte. Tutti sappiamo che il nemico non verrà, perché ha paura di noi. Siamo tutti allevatori di paura, sui due versanti della stessa notte.

Non serve che il nemico arrivi: il nemico è in noi, nei nostri panni rattoppati, nelle nostre miscele di polveri, nei nostri schioppi da banditi, da assassini autorizzati, addestrati dallo Stato. Il nemico è subdolo, è sordido, è mancino. Galleggia nauseabondo nella broda schifa che ci passano, per inzupparci pane secco. Il nemico ci conosce bene: sa che non sarà necessario sacrificare un solo uomo. Faremo da soli, basteremo noi. Moriremo di fame, di tifo, di pellagra. Troveremo il modo di distruggerci, pian piano. Ci scioglieremo nella calce viva del ricordo, sanguinando al pensiero di com’eravamo, prima che ci scaraventassero quaggiù.

Non abbiamo famiglia: non abbiamo moglie, né figli che ci possan sopravvivere. Per un soldo di rancio abbiamo scelto di nostra volontà questo suicidio, questa carneficina. Certo, non è facile ammazzare cristiani. Bisogna prima prepararsi, scristianizzarsi, degradarsi nella ripetizione ottusa di un rituale quotidiano. E’ la scienza quasi esatta della nostra prestigiosa macelleria. E’ quello che vogliono i nostri comandanti, a loro volta schiavi dei signori. Gli ordini cambiano, l’obbedienza no. Quel che rimane, dopo, è solo ignobile poltiglia, ossa e sangue, carne crepata senza un nome, senza la pietà di una carezza.

Lo sappiamo bene: il giorno che il nemico arrivasse davvero, nessuno potrebbe giurare sulla nostra resistenza. E’ vero, abbiamo spalle larghe di granito, lombi protetti di pietra rinforzata, ma dopo giorni di fuoco martellante, dopo intere settimane di martirio, si perderebbero i calcoli del miglior ingegnere: neppure l’ottimo architetto della nostra morte saprebbe più dirci l’ora esatta. E allora sarebbe meglio essere farfalle, poter volare via. Di fronte all’uragano ultimo, nell’inferno incendiario delle detonazioni, non sapremmo proprio più che farcene di tutte le nostre artiglierie, i nostri pezzi famosissimi, i nostri cazzo di cannoni.

La notte là fuori è dei lupi, che almeno vanno dove vogliono, assetati di rapina, sbandando per sentieri solo a loro conosciuti, improvvisando, assecondando il fiuto. Noi invece l’abbiamo organizzata, la rovina: una rovina grande, trionfale. Per questo stiamo qui, e ci tocca aspettare: qui, tra queste mura, in questo spettrale monumento di terrore, armato fino ai denti, eretto per difendere la terra di qualcuno. La terra, sempre lei: la terra maledetta che qualcuno si è preso per sé, purtroppo a nome nostro, inaugurando un’era nuova: scomparsa la vergogna, da allora sventola uno strano orgoglio sull’oscenità della razzia.

Così, davanti a noi si stendono bandiere: le stesse in cui si avvolgono le bare. L’unica nostra breve gloria ci attende all’osteria, tra vino e donne di poco prezzo, merce adatta al nostro rango infame. Ci fanno bere, ci lasciano sfogare per una sera, appena il tempo di una manciata di monete: è un lercio paradiso il nostro misero tesoro, prezioso di mosto e sudore terrestre. Oblio miracoloso ma brevissimo: poi ci preparano per la battaglia. Un re cattivo viene a visitarci a notte alta, nel fondo del sonno. Passa tra le camerate, ci sfiora con mano guantata i capelli di stoppa. Ci ama come fossimo bambini, figli, perché sa che il sangue nostro è suo, è offerto in voto il giorno dell’arruolamento.

Lo giuro. L’abbiamo detto a voce alta, tutti insieme. E mai condanna fu più volontaria e irrevocabile. Mai giurare, dicevano il pazzo e il buffone. Mai prestare giuramento: né per la terra, né per il cielo. Giurare è sposare la legge, l’unica in vigore: cedere l’anima e il corpo per sempre, votarsi al più forte, all’arbitrio elevato a religione. Pesa ancora la memoria di questa terra nera, irta di forche da cui pendevano disertori.

Eppure, ognuno di noi sa di aver a sua volta disertato. Il giuramento è un veleno segreto: in fondo al cuore lo sappiamo, noi abbiamo disertato dall’umanità. Per questo la odiamo così tanto. Siamo volpi senza più coda, demoni derelitti e dilaniati dall’invidia, pieni di rancore, ridotti a mendicanti in uniforme, a patetici gaglioffi. Non siamo più uomini: siamo fantasmi, obbedienti assassini; consacrati al sovrano, per lui uccidiamo a comando. E abbiamo nelle ossa il livore degli altri, gli uomini liberi, che vanno per strada e si credono innocenti. No, troppo comodo. Nessuno è innocente, dove si festeggiano soldati in parata, benedetti dalla croce e acclamati da folle esaltate. Noi siamo soltanto i prescelti, i sacerdoti della strage, gli officianti. Nessuno può credersi al riparo: può capitare a tutti, prima o poi, per obbligo o per fame, di perdersi per sempre dentro una caserma, dove si pratica l’arte più infelice.

Credete: è così che si diventa come noi, di pietra. Ci si arrende, per sempre. Si beve fiele, e si imparano canzoni tristissime. Canzoni che sciolgono il cuore, commuovendo tutti, ufficiali e fanti. Quando cantiamo tutti piangono: persino il boia. Tutti si struggono: civili, militari, donne. E’ il vecchio cuore, a piangere. Si ricorda di quand’era ancora vivo. Poi le lacrime le asciuga il vento della notte sul cammino di guardia, nell’attesa dell’alba ennesima.

Pietra, vi dico. E la pietra non dimentica. Son vecchio, ormai, sono antico. Non ho voglia di vendette. Lascio fare alla morte, quando vorrà venire. Ma non chiedetemi di perdonare: verrà con me all’inferno, chi ha potuto ridurmi così. Verrà con me nel paradiso dei soldati, nell’ora d’aria che spetta anche all’ultimo dei condannati.