SOMMARIO

Anno III  numero 1
aprile 2011

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ARCHIVIO

 

 

 

 

RARAMURI

Mauro Ferraris

TARAHUMARA

Erasmo guarda il cielo, la fetta che si vede dallo squarcio della barranca1, guardo anch'io ma troppo in alto per scorgere il piccolo Piper bianco grosso poco più di un colibrì che ronza nell'aria. La pista d'atterraggio è un balcone inclinato: alle mie spalle la montagna, davanti il precipizio. L'aereo si allarga atterra, scende l'amico che aspettavamo Piero Amighetti, Erasmo gli corre incontro; saluti e strette di mano. E’ Marzo, il caldo sopportabile, siamo in Messico.

L'aeroplano gira, rulla e si rituffa nel vuoto, poi si mette a girare per qualche minuto per prendere quota e fila via sopra le creste della montagna. Noi saliamo a cavallo e andiamo al paese, Batopilas. Sonnacchioso come tutti i paesi di frontiera — non quella politica — una piazza, una chiesa, una bettola, un emporio, un gran bel fiume, le case lungo la strada abitate da mestizos2 togliamo le selle ed i cavalli tornano liberi con i muli e gli asini a cercare di rimediare qualche cosa brucando sotto i saguari. Mi ero tolto la polvere facendo un bel bagno nell'acqua fresca del fiume, polvere accumulata stando sul cassone del camion che tutte le settimane arriva da Creel nella barranca del "Cobre" per portare la posta. È una strada lunga e polverosa credetemi. A Creel ero arrivato dalla città di Chihuahua con il "Ferrocaril" la ferrovia che parte dal Pacifico, sale sulla sierra Madre attraversando gole e torrenti; il treno si ferma, riparte, si riferma. Ho visto il Far West lassù come era al tempo dei pionieri, baracche di legno, strade che sono scoli d'acqua, porci e galline che razzolano dappertutto enormi ranch. Stupito che non era un film, faceva freddo ed era tutto vero. A Chihahua ho comprato una sella. Ci sono due grandi sellerie nella città, un francese che aveva un ristorante me le aveva indicate: "Casa Madrid" grande bella all'amerikana e "Casa Gardea" più artigianale simpatica, alla mano, il posto mio. Scelgo un bell'arcione di legno duro come il ferro e ben ricoperto di cuoio crudo per dargli tenacia e flessibilità. Sono indeciso tra il pomo di ottone e quello ricoperto di cuoio. Devo precisare a questo punto che le "monturas" di Chihuahua sono differenti dalle selle messicane; per intenderci si potrebbero confondere con quelle texane da lavoro, ma hanno tutte dei magnifici arcioni, le bisacce sono incorporate, e tutte hanno i tapaderos — i cavalieri cavalcano a piedi nudi per risparmiare gli stivali —. Prendo quella col pomo ricoperto, ma oggi sono pentito, ho visto che quasi tutti i vacheros usavano quelle col pomo di ottone, lucido nel sole dal costante uso.
Compro anche una riata e un machete, pago, me li metto sulla schiena, prendo il treno poi salgo sul camion ed ora sono qui in questo paese che guardo la sella appoggiata al muro. Perché!

Perché leggendo Artaud avevo sentito parlare dei Tarahumara, e poi perché avevo conosciuto Piero, che mi aveva detto che lui poteva portarmi a campare per un po' di tempo in mezzo a quelli veri, che non avevano visto nella loro vita molte volte l'uomo bianco. Ricordo le sue parole riguardo un servizio pubblicato su quel popolo da una nota rivista di "ecologisti": tutto finto aveva detto, se veramente vuoi ti porto a bere "tesguino", e far festa con loro è l'unico modo che hai per stare con loro, ma la strada è lunga e l'unico mezzo per raggiungerli sono i cavalli. Diablo è un castrone morello, bello, montato da Erasmo la guida. A me tocca un mulo, piccolo, sono arrabbiato perso dentro di me, — ma nessuno se ne accorge, quando sono in viaggio divento impassibile come un apache, — e per fortuna, perché quel muletto era tosto come Diablo (me ne sarei accorto in seguito).

Saliamo in groppa e partiamo su per la valle costeggiando il fiume, gli asini portano il carico, poi il sentiero comincia a salire seguendo sempre il fiume e dopo sette ore di sella arriviamo ad una rancheria, per mangiar un boccone e riposare una notte.

Erasmo mi aveva detto, vai verso Cerro Colorado indicando una montagna lontana, sempre seguendo il fiume, noi ci accampiamo là sotto.

La compagnia cominciava ad accorgersi del gusto che avevo per la solitudine.

Mangiamo intorno al fuoco, in modo identico ai nostri Alpitrek, con gli stessi discorsi e le stesse paure. Attirate dalle fiamme e dall'aroma del caffè arrivano delle ombre. Diavolo, sono Tarahumara; penso senza fare la minima mossa. Erasmo li conosce e comincia a conversare, dopo un po' allungo la mano, un'altra prende con delicatezza la tazza e risponde in spagnolo "Grazie signore".

I Tarahumara vivono sulle montagne, sono cugini dei Pima e dei Pagago, coltivano mais, fagioli e allevano pochissimo bestiame, non per la carne — sono vegetariani — ma per il latte e soprattutto per il preziosissimo letame, che usano per concimare i campi di mais che arano con aratri di legno tirati a mano.
Hanno carnagione scura, i capelli lunghi e neri trattenuti da una fascia frontale di tela bianca, l'abbigliamento è costituito da un perizoma triangolare e da una camicia di foggia inconfondibile. Il loro vero nome è Raramuri che vuoi dire "corridore", il cervo non l'uccidono con l'arco e le frecce ma gli corrono dietro per giorni finché crolla.

 

 

 

Popolo pacifico che dovette subire per tutto il secolo scorso le incursioni degli Apaches di cui divennero acerrimi nemici, fornirono guide all'esercito messicano che inseguivano le bande Chirichahua quando attraversavano i confini. I gesuiti che avevano costruito una chiesa ora non ci sono più, espulsi dalla Spagna nei tempi passati, i cercatori d'oro sono ripartiti lasciando in piedi gli impianti di drenaggio, l'oro non era sufficiente per coprire le spese. I Tarahumara sono tornati padroni delle loro gole, i loro ranchos sono piccoli e sparsi, d'estate quando il caldo aumenta salgono sulle "mesa", si stabiliscono nelle cuevas piccole grotte, le donne pestano il mais su mortai di pietra, che viene poi cotto dentro dei cocci. Presto nel sole siamo di nuovo in sella, guadiamo un torrente, saliamo per un ripido sentiero tra giganteschi saguari, cavalli e muli ci portano in groppa senza fatica, in una breve pausa sentiamo il rullo di un tamburo lontano. Gli asini seguono dietro, carichi e tutti liberi. Arriviamo sul finire della mattina presso un campo indiano, mangiamo e mi guardo intorno, vedo l'unico Brujo3 della mia vita, mi piacerebbe chiedere sentire dire qualche cosa ma non riesco a fare niente. Era troppo più grande di me. Altri fuochi altre notti, sentieri salite sete caldo, mai nessun problema con i cavalli fino a scendere nella gola di Muneraci. Luogo della festa. Vedo i contenitori di terracotta allineati e interrati, le donne avevano pestato un'enorme quantità di mais che avevano masticato e sputato dentro i pentoloni che adesso stavano fermentando.

Compriamo mais per i muli e i cavalli; i messicani ne davano circa due chili per soggetto al giorno, il resto del tempo lo passavano sempre al pascolo.

Poco pensavo io in confronto a quello che mangiava Gregorio sulle Alpi, ma anche gli indiani mangiavano meno di me ed erano molto più in forza di me. Ognuno a suo modo c'è scritto sul campanile del mio paese. Regola che ho sempre rispettato.

Mentre il Tesguino fermenta, ci conosciamo, senza parole, a distanza di rispetto, mangiamo, beviamo e ci laviamo nell'acqua dello stesso fiume, qualcuno di loro conosce un po' di spagnolo.


Il sole si alza, dopo un po' si abbassa e sparisce, i cavalli li vediamo solo alla sera, tornano da soli a mangiare il mais, penso scrivo dormo, loro chiacchierano serenamente. Poi una mattina tutti i tamburi cominciano a suonare, e pifferi e violini e per la prima volta mi invitano a gesti presso di loro — prima ero sempre rimasto a qualche metro di distanza — Io non bevo, non fumo, non gioco entro nel cerchio con i calzoni di fustagno e la camicia militare che mi son portato a casa col congedo, una mano mi tende una mezza zucca di tesguino, ho sete la bevo tutta, pizzica un po', è un po' dolce; sarò di bocca buona ma mi piaceva. Così bevo, come gli indiani, mi rendo conto che per loro la festa è come per noi della Val Sangone, motivo per stare insieme, mangiando e bevendo. Gli otri si svuotano, nel pomeriggio iniziano le danze, sono completamente inebriato anche se la birra di mais fa pochi gradi, il mio fisico come il loro non è abituato agli alcolici e ci basta poco per "dare un po' di fuori di testa". Il sole tramonta, le camicie volano via, apostoli, farisei, tamburi, lance, archi, frecce ballano intorno ai fuochi, al ritmo costante dei tamburi, campanelli, una danza lunghissima che dura tutta la notte, insieme a degli amici della mia età, non so chi sono, come si chiamano, ma dove sono io sono loro, come quando si è con una donna che si "sa" di dover cominciare ad amare. Il sole risorge, magnificamente come sempre, siamo stravolti, solo alcuni continuano a bere dalle zucche, seduti nella polvere, le donne, un po' lontano, continuano a pestare mais sui mortai di pietra. Mi addormento. Sento ronzare l'aria, sono i magnifici colibrì, grossi meno del pollice, volano avanti e all'indietro, succhiano con il lungo becco il nettare dei fiori, come le api, hanno dei colori bellissimi. Se li sentisse Gregorio diventerebbe nervoso, fanno un rumore simile a quello dei cattivi tafani, ma ad ascoltarlo meglio è dolcissimo. Sono contento di svegliarmi così, anche perché sto benissimo fisicamente. L'indomani recuperati cavalli e muli, ci prepariamo a tornare, l'aria è triste come dopo ogni festa, ma non disperata.

Gli indiani sono diventati di nuovo impassibili, ma mentre se ne vanno salutano con gesti delle mani. Il sole non è ancora abbastanza alto per toccare il fondo della barranca, Erasmo mi da il suo cavallo per tornare indietro, dalla gioia corro al galoppo avanti e indietro. Mi fermo di colpo ai bordi del campo perché c'è un ragazzo, con la faccia ed i capelli gialli di ocra, è Alexandro. Ha in mano un tamburo, lo porge, scivolo di sella, lo prendo. Quel tamburo, di un diametro di 1 m ed è spesso 15 cm, ha attraversato tutta la sierra a cavallo, è salito sui G. Heund fino a Miami, e volato sul jumbo della Luftansa fino a Francoforte e poi a Torino, l'ho appeso al chiodo vicino allo zaino, vicino alle cose che uso e vedo sempre e quest’anno a Natale l'ho anche suonato. 

Grazie Alexandro.