SOMMARIO

Anno IV
Numero 1
Gennaio 2012

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ARCHIVIO

 

 

 

 

MACCHINISTA E FUOCHISTA
Mestieri perduti di Giovanni Albera

Sempre a proposito di locomotive a vapore, si parla sempre di treni, di macchine; quasi mai degli UOMINI che ci stanno o ci stavano dietro.
Questa volta voglio parlarvi di loro: neri, sporchi e affaticati, loro che ci hanno permesso di viaggiare per più di un secolo. Sarò qui forse un po' lungo, ma essi si meritano che venga raccontata la loro esperienza, la loro fatica, il loro senso del dovere, il loro amore appassionato (non è una esagerazione!) per i treni che conducevano.
 
Ai tempi del vapore, l'efficienza e la sicurezza di un treno era nelle mani di due figure inseparabili e fondamentali: il macchinista e il fuochista.
E' vero che i capistazione e i casellanti erano investiti di numerose e pesanti responsabilità, ma era soprattutto il "personale di macchina" che aveva sulle spalle compiti gravosissimi e in certi casi molto complicati e terribilmente faticosi. Non c'erano ancora i computers nè i dispositivi elettronici del blocco automatico, nè tanti sofisticati telefoni, figuriamoci i cellulari e il GPS!
 
Il macchinista era "il capo" (il Raiss, insomma), a cui il fuochista (generalmente un ragazzo o un ferroviere più giovane, e detto "il bocia") doveva al suo capo il rispetto ed una incondizionata ubbidienza.
Molto spesso macchista e fuochista diventavano grandi amici, visto che si conoscevano bene dovendo trascorrere moltissime ore insieme. Anzi, erano come padre e figlio: il ragazzo, il "bocia", cioè il fuochista, era impegnato ad imparare "il mestiere" dal suo capo macchinista: infatti guidare la "bestia" (la locomotiva) non era una cosa da quattro soldi, e per conoscere tutti i trucchi ci voleva molto tempo e molto impegno!
 
Il mestiere era parecchio faticoso e pericoloso. Macchinista e fuochista dovevano essere "in macchina" prima dell'alba, quando era ancora notte, per "scaldare la bestia": bisognava accendere il focolaio, mandare in pressione il vapore, controllare i manometri, verificare che i biellismi fossero ben lubrificati, che il fischio funzionasse, che la sabbiera fosse riempita a dovere. Poi si trattava di recarsi, a passo d'uomo, al deposito per fare rifornimento di carbone e di acqua. Infine si potevano agganciare le vetture...
 
Durante la marcia, in cabina faceva sempre un caldo terrificante, dovuto alle vampate di fuoco che uscivano dallo sportello del focolaio, tenuto quasi sempre aperto per permettere al fuochista di introdurvi in continuazione palate e palate di carbone.
D'estate il calore in cabina era insopportabile, e d'inverno molto pericoloso, poichè bastava sporgersi al freddo dalla cabina per prendersi un secco raffreddore, se non addirittura una polmonite fulminante.. Il vento e l'acqua dei temporali che entravano in cabina dalle ampie aperture completavano l'opera... 
Il fumo, le scintille e le particelle di carbone ricoprivano tutto il corpo dei due uomini, che erano sempre tutti neri e sporchi di fuligine, e proteggersi la testa col berretto e gli occhi con gli appositi occhiali serviva a ben poco. La polvere di carbone entrava comunque negli occhi e spesso provocava irritazioni e malattie della vista. Il fumo e le particelle entravano, in gran quantità, anche in bocca, nel naso e nei polmoni.
Eppure il fuochista non poteva fermarsi a riposare troppo: per mantenere la giusta pressione del vapore era necessario alimentare in continuazione il focolaio: la "bestia" si mangiava in un attimo quintali di carbone!
E da parte sua, il macchinista doveva stare perennemente in guardia e avere un occhio vigile, anzi tutti e due, alla linea: non soltanto era tassativo rispettare i semafori e le "bandierine", ma anche eventuali ostacoli sulle rotaie ed imprevisti dovuti a uomini imprudenti ed animali vaganti potevano creare incidenti gravissimi, morti e stragi. La leva della "rapida" (il freno di emergenza) doveva sempre essere a portata di mano, e in casi disperati, per frenare in tempo, era persino necessario tentare di invertire di botto la marcia in piena corsa, sottoponendo la "bestia", e i suoi poveri biellismi, ad uno stress titanico e indescrivibile!
 
Al macchinista era affidato il compito di rispettare gli orari e di mantenere la macchina in perfetta efficienza: si instaurava così, tra gli uomini e la locomotiva, uno strano ed intensissimo rapporto affettivo. Ciascuna "bestia" veniva battezzata con nomi e soprannomi umani, generalmente femminili.
Ogni macchinista conosceva fin nei minimi particolari tutte le caratteristiche, i difetti, le qualità e gli... sfizi della propria macchina. Se doveva cambiare locomotiva, si accorgeva subito delle differenze, anche se la nuova macchina era dello stesso tipo e modello.
 
Il personale di macchina era vagabondo più degli zingari: doveva dormire e mangiare sempre fuori casa, dove il treno faceva capolinea, e in orari piuttosto strani.
Eppure, tutte le testimonianze dicono che quei ferrovieri erano dei veri appassionati per il loro lavoro e per la loro macchina, a cui davano tutti se stessi. Anche coloro che, per poter guadagnare qualche soldo, accettavano loro malgrado di intraprendere quel lavoro in ferrovia, in breve vi si immedesimavano: la vita che conducevano era durissima e faticosa, ma proprio per questo vi si attaccavano come fosse l'unico scopo della loro esistenza. D'altra parte, chi non ce la faceva veniva adibito ad altre mansioni: era una vera e propria selezione naturale!
 
Oggi, dal momento che qualche locomotiva a vapore è stata conservata, a disposizione dei "treni speciali" per i turisti e per i gruppi di ferrovipatici (come me), qualche macchinista esperto di vecchie vaporiere lo si trova ancora! Ma ormai i macchinisti e i fuochisti di vaporiere non fanno più la vitaccia dei loro predecessori, non corrono più gli stessi rischi, non temono più di ammalarsi, anzi si divertono pure... e vengono invitati a pranzo dai viaggiatori.
Il mondo cambia!
 
      Giovanni Albera