Tornato
dal Giro dei Forti mi restava una settimana di ferie. Quella di ferragosto. Non
me la sentivo di fare festa, grigliate
varie e fuochi d’artificio. Mi andava di stare da solo. La “voce dell’orso”,
ricordate? Ho sempre pensato che riguardasse il tumulto delle passioni,
risvegliato dagli eventi della vita, che solo l’immergersi nella natura
consente di placare. Inquietudine di spirito. In alcuni momenti insistente al punto tale che non è possibile
dirigersi altrove.
Al dunque mi mancava l’esplorazione della Val
Grande, l’area wilderness più grande d’Europa. Completamente disabitata.
Situata tra il Lago Maggiore e le alpi lepontine. Percorsa ogni anno da
centinaia di turisti-camminatori, per la maggior parte stranieri, attirati
dalla sua anima selvaggia. Preparo lo zaino per tre quattro giorni di
permanenza. Sacco a pelo, telo tenda. Vi sono all’interno del Parco molti
bivacchi, ma in quel momento non ho ancora scelto precisamente l’itinerario e
quindi mi attrezzo di conseguenza. Il giorno prima, lunedì, entro in libreria e
mi procuro un paio di cartine sulla zona ed un libro che descrive gli
itinerari. Ficco tutto nello zaino con le provviste e dopo aver deciso più o
meno un percorso, avvisato i famigliari, il giorno seguente di buon ora parto
con la macchina per raggiungere uno dei molti ingressi all’area. Ho in mente un
libro letto non molto tempo fa di Nino Chiovini, “I giorni della semina”. Narra
dei quattrocento partigiani rifugiati qui in Val Grande, le formazioni partigiane
che operavano nella zona: la Valdossola di Dionigi
Superti, la Cesare
Battisti di Armando Calzavara (Arca), la Giovine Italia di Nino
Chiovini (Peppo), di Guido
il Monco e Mario Flaim. Si sentivano al sicuro in un
territorio così inaccessibile , circondato da alte montagne ed al suo interno
attraversato da torrenti tumultuosi e sponde ripide e fitte di vegetazione. Nel
giugno del 1944 il famoso rastrellamento. Uomini delle SS e fascisti, in numero
soverchiante, bloccano tutte le uscite e gli accessi. Iniziano la caccia
all’uomo. Comincia la fuga dalla parte bassa del parco, zona di Verbania, fino
al confine con la Svizzera, unica salvezza. Nel passaggio delle forze
nazifasciste gli alpeggi, allora ancora abitati, vengono incendiati e
distrutti. I partigiani circondati, alcuni si disperdono. La maggior parte
uccisi o fatti prigionieri e poi fucilati a Fondotoce dove ora sorge il museo
“Casa della Resistenza”.
Questa vicenda tragica della lotta di
liberazione è parte della storia del nostro territorio. Percorrere quei luoghi
significa per me rammentare l’inutilità delle guerra, qualsiasi guerra. Parto
dunque con l’intenzione di percorrere gli stessi sentieri.
Sono le
nove. Giunto ad un bivio dopo circa un’ora di cammino un cartello attira la mia
attenzione : dice che per raggiunger la località In la Piana, il cuore della Val Grande, da lì
sono necessarie circa sette ore. Faccio un rapido calcolo, mi sento in forma.
E’ un tratto che ho visto sulla cartina, non è quello percorso dai partigiani,
ma porta ad attraversare la parte più selvaggia, quella meno battuta. Non ci vuole
molto a farmi decidere, cambio itinerario e mi incammino. Inizialmente il sentiero è
agevole, ben segnato, la cartina indica che seguirà sempre il torrente,
rimanendo un po’ sulla sponda sinistra e poi spostandosi sulla destra, fino
alla meta. Dopo circa quattro ore di strada la stanchezza inizia a farsi
sentire. Fa molto caldo. Bevo ad ogni ruscello che scende verso il fiume. La
traccia inizia a nascondersi, sale e scende in modo ripido, cerca i passaggi
più accessibili, ma per fare questo deve continuamente alzarsi ed abbassarsi.
Spesso torno indietro per cercare i segni rossi che indicano la via. Non incontro nessuno. Nessuno sa che sono lì
ed il telefonino in tutta la Val Grande non prende. Ma questo è quello che
volevo, solitudine ed avventura. Sono sicuro che tutti voi mi capite, nel
vostro profondo, mi capite.
Quando
arrivo al guado sono allo stremo, per
fortuna il passaggio è agevole, l’acqua, nel Rio Val Grande, è poca. Mangio e
poi inizio a pensare di bivaccare, ma qualcosa dentro di me, la sfida alle mie
capacità fisiche, mi impone di proseguire. Il gps che ho con me segnala che ho
percorso 15 km, ma il dislivello positivo, cioè quello che misura sia la salita
che la discesa è elevato. Secondo i miei calcoli mancano circa tre ore
di cammino. Decido di fare più pause perché ho un principio di crampi. Dal
fiume devo risalire sull’altra sponda duecento
metri, sono molto ripidi. Proseguo. Mi sono trovato altre volte in
queste condizioni. So che devo diminuire il passo ed entrare in una dimensione
nella quale la parte più complicata è controllare i pensieri negativi che
iniziano ad affiorare. E’ una lotta tra il mio pensiero cupo, genitoriale, e un
atteggiamento più ottimista tranquillizzante. Una voce rassicurante, che negli anni
sono riuscito a creare con queste esperienze faticose. L’ incessante dialogo
tra le due parti mi impegna e mi distrae. Penso che il successo o il fallimento
di molte imprese, a tutte le latitudini, dipenda strettamente dall’esito di
tale battaglia. Mi affascina immaginare quale sorta di voci interiori possano
aver avuto i grandi alpinisti, gli esploratori. Abituati alle solitudini più
estreme, a quali immagini e a quali racconti essi possano aver attinto per
portare a termine l’impresa. Assorto in questo pensiero mi è facile comprendere
ciò che non sono. Non sono Hermann Buhl,
non sono Chris McCandless e nemmeno Obes Grandini. So fino a quanto scenderei
nel pozzo. Il mio limite.
Il percorso diventa l’immergersi in un cuore
di tenebra conradiano. Anche qui si
segue un fiume, ed è l’occasione per
addentrarsi nel proprio sé più arcaico e spaventoso. E’ curioso ma una certa
dose di sicurezza me la fornisce il mio zaino. Pieno di provviste, indumenti
asciutti, lampada frontale, sacco a pelo e telo tenda. Con un’attrezzatura di
tal fatta potrei affrontare la notte più buia in qualsiasi momento. Anche la scuola Alpitrek in questa occasione
mi dona sicurezza.
Ad un
certo punto del mio proseguire inizio a fantasticare su dove potrei accamparmi.
Il sentiero è molto stretto, si viaggia abbastanza in piano, ma in questo punto
non vi sono slarghi che permettono di alloggiare comodamente. Sono alto sul
fiume che scorre in basso e sopra di me dirupi. Ho incontrato anche la prima
catena che mi ha permesso di superare un punto esposto su roccia. L’unico posto in piano è appunto la traccia
del sentiero, larga quanto il sacco. Davanti a me solo verde, tutto verde. Giungo improvvisamente in un punto riparato,
alcuni alberi, lì si sono già accampati. C’è la traccia di un fuoco. Potrei..
ma sento di non essere troppo distante dal bivacco. Mi è tornata voglia di
vedere gente, per calmare un po’ di quell’inquietudine che mi ha preso. Cento metri dopo aver deciso di proseguire, il
sentiero termina su di uno scoglio alto un paio di metri. In cima ad esso vi è
un alberello non troppo in forma al quale è stato legato un cordino che,
provvisto di alcuni nodi, forma delle asole che permettono alla mano di
aggrapparsi per scendere la breve parete. Guardo in basso, termina su di un piccolo
ripiano, una cengia. Più sotto un bel salto di un centinaio di metri e poi il
fiume. Lo zaino pesa, ho timore di sbilanciarmi. Allora lo levo dalle spalle e
lo avvicino alla parete e mi viene in mente di calarlo. Ma non con la corda,
che tra l’altro ho appresso, ma con le mani. Fargli fare un piccolo salto e
appoggiarlo, lì sotto di me. Nel mentre mi sto adoperando per compiere questa
azione un pensiero fulmineo mi attraversa la mente .. e se non si fermasse?
Troppo tardi, ho già abbassato la guardia. Come a conferma dei miei pensieri lo
zaino rimbalza una prima volta, salta la cengia, prende velocità e scompare nel
precipizio. Ho netta la sensazione di avvertire, dopo un po’, il tonfo
nell’acqua! Per un attimo tutto si ferma, la mia mente registra alcuni commenti
inutili sulla mia idiozia e poi inizia a ragionare in stato di emergenza. Non
so quanta strada mi manca, ma so che non sono lontanissimo. Non ho più nulla,
ma al bivacco troverò sicuramente qualcuno, in questi giorni. Non ho altri
vestiti, ma non fa freddo, anzi ho la maglietta zuppa di sudore. Il marsupio! Attaccato alla mia cintola,
contiene portafoglio, telefonino, gps, accendino e chiavi della macchina.
Poteva andare peggio, molto peggio. Ora devo solo uscire da questa maledetta
Val Grande!
In un
attimo mi rimetto a camminare. Non segno il posto in cui sono, non mi soffermo
a guardare giù. Ho un solo obiettivo : arrivare al bivacco. Sono leggero, non
ho più crampi. In una situazione di
emergenza il mio corpo reagisce, mi è già successo di sperimentare questa
sensazione e la frase che mi porto dietro è “quando inizi a pensare che non ce
la fai più.. ne hai almeno per lo stesso percorso che hai fatto!”. Questo mi
dona una certa euforia, la mia mente ora è tutta concentrata nell’intravedere
sui sassi e tra la vegetazione i caratteristici segni rossi che indicano il
sentiero, mi aggrappo ad essi. Il sentiero presenta ancora alcuni passaggi
difficili con catene. Ma quasi non me ne accorgo. Guardo l’orologio, sono le
cinque e mezza. Arrivo al fiume per l’ultimo guado, il sentiero mi porta ancora
a sinistra e lì torna a salire sull’altra sponda. Penso che non arriverò mai.
Mi guardo intorno, faggi e tante foglie. Ho l’accendino e so che potrei
accendermi un fuoco per la notte e ficcarmi sotto le foglie come insegna Mauro
Corona. Questo pensiero mi rassicura e
mi accompagna fin In la Piana. Quando vi giungo vi sono tre italiani e due
ragazze svizzere. Racconto loro quello che mi è capitato. Purtroppo gli
italiani non sono del tipo che mi sarebbe piaciuto incontrare, non gente di
montagna ma di Varese. Alla sera mi offrono un piatto di pasta al ragù e un
bicchiere di vino. Le due ragazze svizzere mi fanno consultare la cartina e mi
donano degli snack. Riguardo alla pasta al ragù.. pur essendo vegetariano l’ho
mangiata. E ho pensato a quanta distanza c’è tra me e la nonna di Safran Foer.
Nel libro “Se niente importa” la nonna arriva ad un villaggio dopo essere
sfuggita ai bombardamenti della seconda guerra. Non mangia da giorni, le
offrono della carne e quando sa che non è macellata kosher la rifiuta. Le
chiedono “ma cosa importa?” e lei, di rimando: “se niente importa.. non c’è
nulla da salvare!”.
Il
giorno dopo parto alle sei e in tre ore di cammino sono fuori dalla Val Grande.
E’ mezzogiorno di ferragosto. Nella discesa ho incontrato tre agenti del Corpo
Forestale. Gli ho raccontato la mia storia e quella dello zaino. Mi dicono che
ho fatto bene a lasciarlo lì e che loro proveranno a recuperarlo. Li ringrazio,
ma me ne vado poco convinto che lo faranno sul serio. In quel momento non so
ancora se voglio tornare a cercarlo. Ho la nausea di camminare. In due giorni
ho percorso cinquanta chilometri.
Due
giorni dopo, passata la stanchezza, convinco un mio amico a tornare.
Massimiliano è contento, non ci è mai stato in Val Grande. Penso di farcela in
giornata. Mentre scendiamo verso il bivacco incontro i tre forestali che
escono. Hanno provato, sono scesi lungo il fiume, ma niente. Mi chiedono di
informarli se lo trovo. Sono gentili. Incontriamo anche un branco di camosci,
vicino al sentiero e per un po’ li seguiamo con lo sguardo. L’impresa in
giornata si rivela impossibile. Mi accorgo che ritornato sul sentiero lungo il
fiume non riconosco il posto esatto in cui è caduto. Inoltre i passaggi fatti quel giorno si
mostrano ora in tutta la loro pericolosità e penso che ho sbagliato a chiedere
a Massimiliano di accompagnarmi. Decidiamo di tornare perché ci aspetta la
lunga risalita e poi la discesa al parcheggio. Mi consiglia di smettere di
pensarci, di lasciarlo lì. “Non andare a rischiare”. Gli dico di sì, che forse
è meglio. Ma dentro di me so che non è così. Non si lascia indietro nessuno. E
l’idea del mio zaino sotto la neve e l’acqua della Val Grande mi riempie di
tristezza e rabbia. Non c’entra niente lì, con quel luogo. E’ mio.
Così il
giorno dopo chiamo quelli della Forestale che si mostrano disponibili a entrare
con me per cercarlo! Non me lo sarei aspettato. Ecco gente di montagna che sa
dare valore alle cose! Ci accordiamo per il secondo week end di settembre.
Partiamo
il sabato mattina, trascorro con loro tutta la giornata, li conosco. Mi
raccontano della fatica e della passione. Dicono che spesso la gente che
frequenta il parco li vede come nemici. Spiegano: “è un posto selvaggio. Alcuni
quando vengono qui si immaginano di essere lontani dalla civiltà e le sue
regole. Allora vogliono poter fare tutto ciò che vogliono e la Legge è vista
come un disturbo”. Arrivano a compiere atti di vandalismo contro le loro
strutture. Di nascosto, come solo gli uomini, vigliacchi e rancorosi, sono in
grado di fare. Non pensavo che vi potesse essere tra coloro che camminano nei
boschi esemplari di tal fatta. Quasi a rincuorarli sulla bontà del genere umano,
li aiuto nel fare legna per i bivacchi. Tagliamo e spacchiamo fino alle sette. Cena e poi breve gita notturna alle pozze
dove si rifugiano le piccole trote. Illuminate dalla luce delle torce schizzano
veloci in tutte le direzioni. Il tempo non è dei migliori, prima di dormire
inizia a piovere.
Il
giorno seguente sveglia di buon’ora e ci incamminiamo sul sentiero, teatro
della mia impresa. Dopo un po’ che camminiamo mi rendo conto che veramente non
ricordo più il luogo esatto. I ricordi sono ormai annebbiati e quel giorno non
mi sono soffermato abbastanza per raccogliere elementi utili a fissarli nella memoria. Ho in mente un’immagine di una
catena, di un salto, ma si rivela sbagliata. Non la trovo così come me la
ricordo. Due si fermano, un po’scoraggiati dalle mia amnesia. Io ed un altro,
più intraprendente, proseguiamo. Giunti ad un certo punto, dopo due ore di
cammino, lo prego di tornare indietro. Non è lì, mi spiace, non voglio farli
faticare inutilmente. Mi dice: “secondo me è più indietro, dove siamo già
passati. Fai la strada nello stesso senso che hai percorso quel giorno.. magari
qualcosa ricordi.” E’ così! Ritorno sui miei passi e ad un certo punto
riconosco il cordino, la catena e poi il salto. E’ qui. Mi dicono, per
sollevarmi, che sono già stati sul fiume in quel punto. A recuperare il corpo
di un tedesco che è scivolato, qualche anno prima. Un corpo, uno zaino. Poteva
andare decisamente peggio. Sanno dove si può scendere. Io ed un altro li
aspettiamo sopra e ci incarichiamo di gettare qualche sasso per far capire loro
dove è il punto esatto. Dopo circa un’ora di attesa sono sotto di noi e dopo
altri minuti l’atteso segnale. Eureka! Trovato. Non era in acqua ma sul greto.
C’è tutto, tranne una camicia militare con bandiera tedesca. E’ rimasta
impigliata su di un albero. Mi chiedono cosa fare, è in alto. “Lasciatela lì”,
gli dico. “E’ verde..”, “è destino..” penso felice dentro di me.
"Perdersi nei boschi, in qualsiasi
momento, è un'esperienza sorprendente e memorabile, e insieme preziosa... è
solo quando ci siamo completamente perduti che apprezziamo la vastità e la
singolarità della Natura. Ogni uomo deve imparare da capo le direzioni della
bussola, ogni volta che si risveglia sia dal sonno che da qualsiasi astrazione.
Solo quando ci siamo perduti, in altre parole solo quando abbiamo perduto il
mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l'infinita
ampiezza delle nostre relazioni."
(H. D. Thoreau)
NOTA:
LA VAL GRANDE
Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo
Vai e guarda dietro ai monti
Qualcosa è perso dietro ai monti
Vai! E’ perso e aspetta te. (R. T.
Kipling)
La Val Grande è innanzitutto un luogo
dell’anima. Se non si comprende questo non si capisce il fascino che continua
ad esercitare su uomini del XXI secolo. Essa rappresenta l’archetipo del
rifugio, ma anche del selvaggio. Da
selva, foresta. Risuona in noi il richiamo atavico che London ci ricorda
appartiene al mondo animale ed è per questo, in via evolutiva, patrimonio delle
umane genti che cercano in essa la possibilità di ripercorrere quella via al
contrario. Ritornare al vero sé. Vanaprastha: in India indica il terzo stadio
della vita dell’uomo. “Dopo aver visto le proprie rughe e la propria
canizie e dopo aver conosciuto i figli dei propri figli, cominciando
a percepire la vanità dei beni terreni, l'uomo si ritirava, da solo o con la
moglie, ai margini del villaggio o in qualche eremitaggio della foresta, Vana,
diventando così un Vanaprastha, uno che dimora nelle selve, dedito
alla nonviolenza, alla meditazione e alla ricerca interiore, con lo scopo di
realizzare un progressivo distacco dai beni di questa vita.
Essa racchiude in sé elementi specifici
che ne fanno più di altri luogo privilegiato per rappresentare questo incontro
con il sé più profondo. Val Grande è storia di montagne, non particolarmente
elevate. Ci si trova infatti a ridosso delle alpi. E’ soprattutto storia di
boschi, legname una volta prelevato in dosi massicce, oggi libero di crescere e
moltiplicarsi. E’ storia di pascoli sfruttati e contesi, ora abbandonati. E’
storia di fatica. Immane, che ha abitato le nostre terre, come altre, fino agli
ultimi decenni del secolo scorso. Ed è come dicevo prima storia di una ricerca,
primordiale, di fusione con l’elemento e di ritiro dal mondo civilizzato.
L’istinto del cacciatore, in perpetua esplorazione, e quello del raccoglitore,
che vi trova rifugio e protezione. Per questo accoglie spiriti inquieti,
giovani avventurieri o semplicemente turisti del bello, della natura.
Come altri luoghi è stata teatro di
battaglie, efferati omicidi o semplici tragedie dettate da imperizia o dal caso.
Ma esse non hanno lasciato traccia, se non “a ricordo”, di ciò che è avvenuto.
Questo è il suo grande valore, non avere memoria. Ed anche ciò che nell’uomo
genera sgomento. L’indifferenza della natura alle umane vicende. In quei luoghi
più che altrove si può percepire. Tutto passa. Anche i dolori più immensi, gli
sforzi e le opere più grandi, inghiottiti dalla Val Grande che con la sua
natura prorompente si riappropria di spazi che l’uomo ha occupato.
Di seguito l’articolo tratto dal libro.
Maggiori informazioni rispetto ad itinerari ed il forum sul Parco nel sito:
http://www.in-valgrande.it/
Articolo tratto da “Escursioni in Val Grande” di Bernhard
Herold Thelesklaf e Teresio Valsesia.
Val Grande: “L’ultimo paradiso”
Il
Parco nazionale della Val Grande è considerato l’area selvaggia più vasta
d’Italia e dell’intero arco alpino. Questa constatazione suscita subito una
certa meraviglia perché la Val Grande è contigua alla regione del Lago Maggiore
ad alto sviluppo turistico e densamente popolata, nonché ai margini della
pianura padana, una della maggiori aree industrializzate d’Europa. Uno dei
promotori del Parco Nazionale, Teresio Valsesia, definisce la Val Grande, nel
suo libro pubblicato nel 1985, come “ultimo paradiso”. Chi vi approda non
riesce facilmente a lasciarlo. Il Parco nazionale della Val Grande consiste
essenzialmente in due valli principali, la Val Pogallo e la Val Grande vera e
propria. Quest’ultima confina con la Val d’Ossola che sin dall’antichità è
stata considerata un importante corridoio per attraversare le Alpi. La Val
Grande e la Pogallo sono divise da una catena montuosa non molto alta, ma
complessa e dirupata. Questa parte
centrale del Parco è quella che comprende l’area di Riserva Integrale ed è
caratterizzata dalla presenza del monte Pedum (quello alle cui pendici si sono
raccolti i partigiani ricordate?). Il monte Pedum ha una cresta il cui profilo,
visibile dall’autostrada, ricorda, dice Clara, la faccia del Presidente
Scalfaro. La Riserva Integrale invece è quella parte del Parco che non è
accessibile, in teoria, da nessuno. Essa è istituita per ridurre al minimo
l’impatto dell’essere umano. Per difenderla dall’uomo. La stessa morfologia
si riscontra tra la Val Grande e l’Ossola, ed è molto evidente anche dal treno
Domodossola – Milano. A nord della Val Grande si trova la Valle Vigezzo, che
collega Domodossola a Locarno (Svizzera) attraverso le Centovalli che è una
valle situata già in territorio svizzero.
Tra la
Vigezzo e la Val Grande si innalzano le montagne più alte del Parco nazionale
(2200-2300m). Anche la parte orientale è delimitata da una catena montuosa, che
separa la Val Pogallo dalle valli Cannobina e Intrasca. La Val Grande è quindi
circondata da montagne a ferro di cavallo che ne rendono problematico
l’accesso. Verso sud il torrente San Bernardino, che sfocia nel Lago Maggiore a
Verbania, ha formato nel corso del tempo una valle profondamente incassata e
nella Val Grande una gola lunga nove km che ne complica ulteriormente
l’accesso.
Le
difficoltà di approccio sono confermate dalla localizzazione di Cicogna, che è
l’unico centro abitato tutto l’anno in Val Pogallo e che solo negli anni ’20 è
stato raggiunto dalla strada carrozzabile. In precedenza, per secoli una
mulattiera verso Cossogno aveva rappresentato il collegamento più diretto con
il mondo esterno.
Dal paesaggio culturale all’area selvaggia
La
parte superiore della Val Grande è stata popolata nel medioevo dall’Ossola e
dalla Vigezzo, e ricade sui Comuni di Premosello-Chiovenda, Beura-Cardezza,
Trontano, Santa Maria Maggiore e Malesco. In quest’area (parte superiore),
ceduta in gran parte negli anni ’60 all’azienda forestale dello Stato, le
uniche possibilità di sfruttamento per gli uomini sono state l’apicoltura e
l’economia forestale. L’agricoltura è stata possibile solo nella parte
inferiore della Val Grande e unicamente con grande fatica. Per ottenere dei
modestissimi appezzamenti coltivabili
era necessario costruire terrazzamenti che risolvevano il problema dei terreni
scoscesi. Lo sfruttamento delle distese boschive invece era già iniziato nel XV
secolo, a partire dal Monte Faiè, che fu messo a disposizione per costruire il
Duomo di Milano da parte del duca Gian
Galeazzo Visconti. L’economia forestale si è estesa in seguito in Val
Grande e in Pogallo e si è intensificata
tra il XVIII e la metà del XX secolo. Non
è raro trovare lungo i sentieri i resti delle antiche teleferiche, opere di
ardita concezione in grado di trasportare legname. In epoche più antiche esso
veniva invece depositato nei corsi d’acqua in attesa della “buzza” che portava
poi tutto a valle. Durante la seconda guerra mondiale la
Val Grande servì come rifugio per diversi gruppi di partigiani, che però nel
rastrellamento del giugno 1944 subirono una pesante sconfitta con la
distruzione di numerosi alpeggi. Questo drammatico evento insieme alla forte
crescita dell’industria nel Verbano e
nella bassa Ossola (con la conseguente domanda di manodopera) ha determinato in
pochi anni il crollo dello sfruttamento alpestre nel territorio del Parco
nazionale. Anche l’esbosco è stato interrotto poco dopo l’ultima guerra. La Val
Grande fu abbandonata a se stessa e nei decenni successivi non venne
considerata quasi più da nessuno.
E’ una
valle incassata, a quote molto basse (circa 400 metri). Solo nella parte
superiore si innalza oltre i 2000 m.: questa morfologia ha favorito la rapida
modifica della vegetazione. I prati e i pascoli sono stati occupati dagli
arbusti e dagli alberi mentre i boschi si sono ripresi dopo lo sfruttamento
intensivo. Oggi la valle ha assunto un aspetto selvaggio, anche se non si
tratta di un paesaggio naturale, avulso dall’influenza dell’uomo. Sull’arco
alpino le aree simili sono molto rare e molto meno estese mentre domina il
paesaggio culturale antropizzato. Oggi il termine “wilderness” (area selvaggia)
viene però utilizzato anche per connotare paesaggi culturali ridiventati
selvaggi come quello della Val Grande.
La prima Riserva naturale alla fine degli anni ‘60
Dopo la
seconda guerra mondiale è stata necessaria l’azione di diverse persone per
realizzare il Parco nazionale, diventato realtà il 2 marzo 1992. Precedente a
questa la nascita, nel 1967, della Riserva Integrale del Pedum (973 ettari).
Questa prima zona del parco gode di una protezione quasi totale. Oggi vi si può
accedere, si trova appunto nel cuore del parco stesso, solo con autorizzazione
e per scopi di studio. Nel 1970 seguì la Riserva orientata del Mottàc (2410
ettari, area anch’essa inglobata oggi all’interno del Parco, situata a nord).
Per lungo tempo le due Riserve sono esistite unicamente sulla carta. Soltanto
all’inizio degli anni ’80 sono stati delimitati i confini e costruiti due
rifugi per i forestali.
Un nuovo concetto di “Wilderness”
Negli
anni ’70 le Sezioni “Est Monte Rosa” del Club Alpino italiano e Italia Nostra
hanno incominciato a operare per la creazione di un Parco nazionale nell’intera
area. Contemporaneamente si diffondeva in Italia una nuova concezione di tutela
ambientale, sulla base della “wilderness” degli USA. In questo caso non si
tratta semplicemente della protezione e della tutela di una “Wilderness”
(sottratta all’influenza dell’uomo), ma dell’interazione tra l’uomo e la “Wilderness”. La quotidianità in un
mondo altamente tecnologico e in continuo mutamento stimola in molti profonda
nostalgia per una natura “non addomesticata”, un desiderio di solitudine e di
esperienze spirituali, di avventure estreme e di un polo opposto alla civiltà
della sicurezza e della disponibilità totale. La “Wilderness” diventa coscienza
di un’area di proiezione per l’essere umano. Nel 1977, Franco Zunino, promotore
italiano della “Wilderness”, al primo congresso a Johannesburg, avanzò la
proposta di dichiarare la Val Grande la prima area “selvaggia” italiana. Quali,
dunque, gli obiettivi del futuro Parco nazionale? Tutelare un paesaggio
culturale ritornato selvaggio da un nuovo intervento dell’uomo? Quindi un’area
senza interventi esterni, abbandonata a se stessa? Oppure nella disponibilità
dell’uomo moderno per il rinnovamento spirituale e per il beneficio del fisico?
Un’opportunità per l’uomo ormai estraniato dalla propria storia, come spazio di
scoperta e di ricerca delle proprie radici di civiltà?
Nascita del Parco nazionale
L’allora
ministro Valdo Spini attuò il disposto legislativo il 2marzo 1992. Nel 1998 il
Parco nazionale venne ampliato di 29 Kmq complessivi (esattamente 14.598
ettari), inglobando ulteriori territori dei comuni di Aurano, Premosello e
Vogogna, uscendo così dai confini naturali della Val Grande e della Pogallo.
L’amministrazione del Parco è tenuta a rispettare il concetto di “Wilderness”
nelle attività promozionali. La Val Grande non deve quindi rimanere nascosta
all’uomo, ma disponibile come palestra ambientale e culturale, assicurando la
disponibilità limitata delle infrastrutture per i pernottamenti e dei sentieri
segnati. Mentre l’accesso alla Zona A (Riserva integrale del Pedum) è vietato,
in altre aree non viene facilitato (a volte fortemente sconsigliato¹) e in
altre ancora – senza intaccarne il carattere selvaggio – sono stati sistemati
dei sentieri e realizzati nuovi rifugi utilizzando le baite con restauri
conservativi per mantenerne le peculiarità architettoniche originarie. Alcune
mete facilmente raggiungibili, come l’alpe Scaredi o Pogallo, sono molto
frequentate durante il fine settimana, tra luglio e settembre, e durante le
ferie agostane. Tuttavia, nei periodi meno affollati, si riesce ancora a
camminare per giorni in molte zone senza incontrare nessuno. Il silenzio
intenso, o meglio la mancanza totale di rumori causati dall’uomo, la natura
molto folta, le testimonianze degli uomini e delle donne che in passato vi
hanno vissuto e lavorato, tutto ciò crea il fascino di questa valle non solo
grande, ma magnificamente imponente.
Note
1: la
percorrenza di alcuni sentieri è stata vietata da ordinanze comunali dopo che
si erano verificati incidenti in cui sono rimaste vittime delle persone.
L’ultimo caso riguarda due ragazzi svizzeri che hanno tentato l’ingresso da un
accesso poco frequentato alla Valle. Accampati nella notte sul greto di un
torrente sono stati sorpresi da improvviso temporale, l’acqua li ha travolti ed uccisi.
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