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SOMMARIO

Anno IV
Numero 3
Dicembre 2012

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ARCHIVIO

 

 

 

 

UNO ZAINO

di Saulo Zanetta

Tornato dal Giro dei Forti mi restava una settimana di ferie. Quella di ferragosto. Non me la sentivo di fare festa,  grigliate varie e fuochi d’artificio. Mi andava di stare da solo. La “voce dell’orso”, ricordate? Ho sempre pensato che riguardasse il tumulto delle passioni, risvegliato dagli eventi della vita, che solo l’immergersi nella natura consente di placare. Inquietudine di spirito.   In alcuni momenti  insistente al punto tale che non è possibile dirigersi altrove.

 Al dunque mi mancava l’esplorazione della Val Grande, l’area wilderness più grande d’Europa. Completamente disabitata. Situata tra il Lago Maggiore e le alpi lepontine. Percorsa ogni anno da centinaia di turisti-camminatori, per la maggior parte stranieri, attirati dalla sua anima selvaggia. Preparo lo zaino per tre quattro giorni di permanenza. Sacco a pelo, telo tenda. Vi sono all’interno del Parco molti bivacchi, ma in quel momento non ho ancora scelto precisamente l’itinerario e quindi mi attrezzo di conseguenza. Il giorno prima, lunedì, entro in libreria e mi procuro un paio di cartine sulla zona ed un libro che descrive gli itinerari. Ficco tutto nello zaino con le provviste e dopo aver deciso più o meno un percorso, avvisato i famigliari, il giorno seguente di buon ora parto con la macchina per raggiungere uno dei molti ingressi all’area. Ho in mente un libro letto non molto tempo fa di Nino Chiovini, “I giorni della semina”. Narra dei quattrocento partigiani rifugiati qui in Val Grande, le formazioni partigiane che operavano nella zona: la Valdossola di Dionigi Superti, la Cesare Battisti di Armando Calzavara (Arca), la Giovine Italia di Nino Chiovini (Peppo), di Guido il Monco e  Mario Flaim.  Si sentivano al sicuro in un territorio così inaccessibile , circondato da alte montagne ed al suo interno attraversato da torrenti tumultuosi e sponde ripide e fitte di vegetazione. Nel giugno del 1944 il famoso rastrellamento. Uomini delle SS e fascisti, in numero soverchiante, bloccano tutte le uscite e gli accessi. Iniziano la caccia all’uomo. Comincia la fuga dalla parte bassa del parco, zona di Verbania, fino al confine con la Svizzera, unica salvezza. Nel passaggio delle forze nazifasciste gli alpeggi, allora ancora abitati, vengono incendiati e distrutti. I partigiani circondati, alcuni si disperdono. La maggior parte uccisi o fatti prigionieri e poi fucilati a Fondotoce dove ora sorge il museo “Casa della Resistenza”.

 Questa vicenda tragica della lotta di liberazione è parte della storia del nostro territorio. Percorrere quei luoghi significa per me rammentare l’inutilità delle guerra, qualsiasi guerra. Parto dunque con l’intenzione di percorrere gli stessi sentieri.

Sono le nove. Giunto ad un bivio dopo circa un’ora di cammino un cartello attira la mia attenzione : dice che per raggiunger la località  In la Piana, il cuore della Val Grande, da lì sono necessarie circa sette ore. Faccio un rapido calcolo, mi sento in forma. E’ un tratto che ho visto sulla cartina, non è quello percorso dai partigiani, ma porta ad attraversare la parte più selvaggia, quella meno battuta. Non ci vuole molto a farmi decidere, cambio itinerario e  mi incammino. Inizialmente il sentiero è agevole, ben segnato, la cartina indica che seguirà sempre il torrente, rimanendo un po’ sulla sponda sinistra e poi spostandosi sulla destra, fino alla meta. Dopo circa quattro ore di strada la stanchezza inizia a farsi sentire. Fa molto caldo. Bevo ad ogni ruscello che scende verso il fiume. La traccia inizia a nascondersi, sale e scende in modo ripido, cerca i passaggi più accessibili, ma per fare questo deve continuamente alzarsi ed abbassarsi. Spesso torno indietro per cercare i segni rossi che indicano la via.  Non incontro nessuno. Nessuno sa che sono lì ed il telefonino in tutta la Val Grande non prende. Ma questo è quello che volevo, solitudine ed avventura. Sono sicuro che tutti voi mi capite, nel vostro profondo, mi capite.

Quando arrivo al guado sono  allo stremo, per fortuna il passaggio è agevole, l’acqua, nel Rio Val Grande, è poca. Mangio e poi inizio a pensare di bivaccare, ma qualcosa dentro di me, la sfida alle mie capacità fisiche, mi impone di proseguire. Il gps che ho con me segnala che ho percorso 15 km, ma il dislivello positivo, cioè quello che misura sia la salita che la discesa  è elevato.  Secondo i miei calcoli mancano circa tre ore di cammino. Decido di fare più pause perché ho un principio di crampi. Dal fiume devo risalire sull’altra sponda duecento  metri, sono molto ripidi. Proseguo. Mi sono trovato altre volte in queste condizioni. So che devo diminuire il passo ed entrare in una dimensione nella quale la parte più complicata è controllare i pensieri negativi che iniziano ad affiorare. E’ una lotta tra il mio pensiero cupo, genitoriale, e un atteggiamento più ottimista tranquillizzante. Una voce rassicurante, che negli anni sono riuscito a creare con queste esperienze faticose. L’ incessante dialogo tra le due parti mi impegna e mi distrae. Penso che il successo o il fallimento di molte imprese, a tutte le latitudini, dipenda strettamente dall’esito di tale battaglia. Mi affascina immaginare quale sorta di voci interiori possano aver avuto i grandi alpinisti, gli esploratori. Abituati alle solitudini più estreme, a quali immagini e a quali racconti essi possano aver attinto per portare a termine l’impresa. Assorto in questo pensiero mi è facile comprendere ciò che non sono.  Non sono Hermann Buhl, non sono Chris McCandless e nemmeno Obes Grandini. So fino a quanto scenderei nel pozzo. Il mio limite.

  Il percorso diventa l’immergersi in un cuore di tenebra conradiano.  Anche qui si segue un fiume, ed  è l’occasione per addentrarsi nel proprio sé più arcaico e spaventoso. E’ curioso ma una certa dose di sicurezza me la fornisce il mio zaino. Pieno di provviste, indumenti asciutti, lampada frontale, sacco a pelo e telo tenda. Con un’attrezzatura di tal fatta potrei affrontare la notte più buia in qualsiasi momento.  Anche la scuola Alpitrek in questa occasione mi dona sicurezza.

Ad un certo punto del mio proseguire inizio a fantasticare su dove potrei accamparmi. Il sentiero è molto stretto, si viaggia abbastanza in piano, ma in questo punto non vi sono slarghi che permettono di alloggiare comodamente. Sono alto sul fiume che scorre in basso e sopra di me dirupi. Ho incontrato anche la prima catena che mi ha permesso di superare un punto esposto su roccia.  L’unico posto in piano è appunto la traccia del sentiero, larga quanto il sacco. Davanti a me solo verde, tutto verde.  Giungo improvvisamente in un punto riparato, alcuni alberi, lì si sono già accampati. C’è la traccia di un fuoco. Potrei.. ma sento di non essere troppo distante dal bivacco. Mi è tornata voglia di vedere gente, per calmare un po’ di quell’inquietudine che mi ha preso.  Cento metri dopo aver deciso di proseguire, il sentiero termina su di uno scoglio alto un paio di metri. In cima ad esso vi è un alberello non troppo in forma al quale è stato legato un cordino che, provvisto di alcuni nodi, forma delle asole che permettono alla mano di aggrapparsi per scendere la breve parete. Guardo in basso, termina su di un piccolo ripiano, una cengia. Più sotto un bel salto di un centinaio di metri e poi il fiume. Lo zaino pesa, ho timore di sbilanciarmi. Allora lo levo dalle spalle e lo avvicino alla parete e mi viene in mente di calarlo. Ma non con la corda, che tra l’altro ho appresso, ma con le mani. Fargli fare un piccolo salto e appoggiarlo, lì sotto di me. Nel mentre mi sto adoperando per compiere questa azione un pensiero fulmineo mi attraversa la mente .. e se non si fermasse? Troppo tardi, ho già abbassato la  guardia. Come a conferma dei miei pensieri lo zaino rimbalza una prima volta, salta la cengia, prende velocità e scompare nel precipizio. Ho netta la sensazione di avvertire, dopo un po’, il tonfo nell’acqua! Per un attimo tutto si ferma, la mia mente registra alcuni commenti inutili sulla mia idiozia e poi inizia a ragionare in stato di emergenza. Non so quanta strada mi manca, ma so che non sono lontanissimo. Non ho più nulla, ma al bivacco troverò sicuramente qualcuno, in questi giorni. Non ho altri vestiti, ma non fa freddo, anzi ho la maglietta zuppa di sudore.  Il marsupio! Attaccato alla mia cintola, contiene portafoglio, telefonino, gps, accendino e chiavi della macchina. Poteva andare peggio, molto peggio. Ora devo solo uscire da questa maledetta Val Grande!

In un attimo mi rimetto a camminare. Non segno il posto in cui sono, non mi soffermo a guardare giù. Ho un solo obiettivo : arrivare al bivacco. Sono leggero, non ho più crampi.  In una situazione di emergenza il mio corpo reagisce, mi è già successo di sperimentare questa sensazione e la frase che mi porto dietro è “quando inizi a pensare che non ce la fai più.. ne hai almeno per lo stesso percorso che hai fatto!”. Questo mi dona una certa euforia, la mia mente ora è tutta concentrata nell’intravedere sui sassi e tra la vegetazione i caratteristici segni rossi che indicano il sentiero, mi aggrappo ad essi. Il sentiero presenta ancora alcuni passaggi difficili con catene. Ma quasi non me ne accorgo. Guardo l’orologio, sono le cinque e mezza. Arrivo al fiume per l’ultimo guado, il sentiero mi porta ancora a sinistra e lì torna a salire sull’altra sponda. Penso che non arriverò mai. Mi guardo intorno, faggi e tante foglie. Ho l’accendino e so che potrei accendermi un fuoco per la notte e ficcarmi sotto le foglie come insegna Mauro Corona.  Questo pensiero mi rassicura e mi accompagna fin In la Piana. Quando vi giungo vi sono tre italiani e due ragazze svizzere. Racconto loro quello che mi è capitato. Purtroppo gli italiani non sono del tipo che mi sarebbe piaciuto incontrare, non gente di montagna ma di Varese. Alla sera mi offrono un piatto di pasta al ragù e un bicchiere di vino. Le due ragazze svizzere mi fanno consultare la cartina e mi donano degli snack. Riguardo alla pasta al ragù.. pur essendo vegetariano l’ho mangiata. E ho pensato a quanta distanza c’è tra me e la nonna di Safran Foer. Nel libro “Se niente importa” la nonna arriva ad un villaggio dopo essere sfuggita ai bombardamenti della seconda guerra. Non mangia da giorni, le offrono della carne e quando sa che non è macellata kosher la rifiuta. Le chiedono “ma cosa importa?” e lei, di rimando: “se niente importa.. non c’è nulla da salvare!”.

Il giorno dopo parto alle sei e in tre ore di cammino sono fuori dalla Val Grande. E’ mezzogiorno di ferragosto. Nella discesa ho incontrato tre agenti del Corpo Forestale. Gli ho raccontato la mia storia e quella dello zaino. Mi dicono che ho fatto bene a lasciarlo lì e che loro proveranno a recuperarlo. Li ringrazio, ma me ne vado poco convinto che lo faranno sul serio. In quel momento non so ancora se voglio tornare a cercarlo. Ho la nausea di camminare. In due giorni ho percorso cinquanta chilometri.

Due giorni dopo, passata la stanchezza, convinco un mio amico a tornare. Massimiliano è contento, non ci è mai stato in Val Grande. Penso di farcela in giornata. Mentre scendiamo verso il bivacco incontro i tre forestali che escono. Hanno provato, sono scesi lungo il fiume, ma niente. Mi chiedono di informarli se lo trovo. Sono gentili. Incontriamo anche un branco di camosci, vicino al sentiero e per un po’ li seguiamo con lo sguardo. L’impresa in giornata si rivela impossibile. Mi accorgo che ritornato sul sentiero lungo il fiume non riconosco il posto esatto in cui è caduto.  Inoltre i passaggi fatti quel giorno si mostrano ora in tutta la loro pericolosità e penso che ho sbagliato a chiedere a Massimiliano di accompagnarmi. Decidiamo di tornare perché ci aspetta la lunga risalita e poi la discesa al parcheggio. Mi consiglia di smettere di pensarci, di lasciarlo lì. “Non andare a rischiare”. Gli dico di sì, che forse è meglio. Ma dentro di me so che non è così. Non si lascia indietro nessuno. E l’idea del mio zaino sotto la neve e l’acqua della Val Grande mi riempie di tristezza e rabbia. Non c’entra niente lì, con quel luogo. E’ mio.

Così il giorno dopo chiamo quelli della Forestale che si mostrano disponibili a entrare con me per cercarlo! Non me lo sarei aspettato. Ecco gente di montagna che sa dare valore alle cose! Ci accordiamo per il secondo week end di settembre.

Partiamo il sabato mattina, trascorro con loro tutta la giornata, li conosco. Mi raccontano della fatica e della passione. Dicono che spesso la gente che frequenta il parco li vede come nemici. Spiegano: “è un posto selvaggio. Alcuni quando vengono qui si immaginano di essere lontani dalla civiltà e le sue regole. Allora vogliono poter fare tutto ciò che vogliono e la Legge è vista come un disturbo”. Arrivano a compiere atti di vandalismo contro le loro strutture. Di nascosto, come solo gli uomini, vigliacchi e rancorosi, sono in grado di fare. Non pensavo che vi potesse essere tra coloro che camminano nei boschi esemplari di tal fatta. Quasi a rincuorarli sulla bontà del genere umano, li aiuto nel fare legna per i bivacchi. Tagliamo e spacchiamo fino alle sette.  Cena e poi breve gita notturna alle pozze dove si rifugiano le piccole trote. Illuminate dalla luce delle torce schizzano veloci in tutte le direzioni. Il tempo non è dei migliori, prima di dormire inizia a piovere.

Il giorno seguente sveglia di buon’ora e ci incamminiamo sul sentiero, teatro della mia impresa. Dopo un po’ che camminiamo mi rendo conto che veramente non ricordo più il luogo esatto. I ricordi sono ormai annebbiati e quel giorno non mi sono soffermato abbastanza per raccogliere elementi utili a fissarli nella  memoria. Ho in mente un’immagine di una catena, di un salto, ma si rivela sbagliata. Non la trovo così come me la ricordo. Due si fermano, un po’scoraggiati dalle mia amnesia. Io ed un altro, più intraprendente, proseguiamo. Giunti ad un certo punto, dopo due ore di cammino, lo prego di tornare indietro. Non è lì, mi spiace, non voglio farli faticare inutilmente. Mi dice: “secondo me è più indietro, dove siamo già passati. Fai la strada nello stesso senso che hai percorso quel giorno.. magari qualcosa ricordi.” E’ così! Ritorno sui miei passi e ad un certo punto riconosco il cordino, la catena e poi il salto. E’ qui. Mi dicono, per sollevarmi, che sono già stati sul fiume in quel punto. A recuperare il corpo di un tedesco che è scivolato, qualche anno prima. Un corpo, uno zaino. Poteva andare decisamente peggio. Sanno dove si può scendere. Io ed un altro li aspettiamo sopra e ci incarichiamo di gettare qualche sasso per far capire loro dove è il punto esatto. Dopo circa un’ora di attesa sono sotto di noi e dopo altri minuti l’atteso segnale. Eureka! Trovato. Non era in acqua ma sul greto. C’è tutto, tranne una camicia militare con bandiera tedesca. E’ rimasta impigliata su di un albero. Mi chiedono cosa fare, è in alto. “Lasciatela lì”, gli dico. “E’ verde..”, “è destino..” penso felice dentro di me. 13%20zaino.jpg

 "Perdersi nei boschi, in qualsiasi momento, è un'esperienza sorprendente e memorabile, e insieme preziosa... è solo quando ci siamo completamente perduti che apprezziamo la vastità e la singolarità della Natura. Ogni uomo deve imparare da capo le direzioni della bussola, ogni volta che si risveglia sia dal sonno che da qualsiasi astrazione. Solo quando ci siamo perduti, in altre parole solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l'infinita ampiezza delle nostre relazioni."
(H. D. Thoreau)


NOTA:

LA VAL GRANDE

Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo

Vai e guarda dietro ai monti

Qualcosa è perso dietro ai monti

Vai! E’ perso e aspetta te. (R. T. Kipling)

 La Val Grande è innanzitutto un luogo dell’anima. Se non si comprende questo non si capisce il fascino che continua ad esercitare su uomini del XXI secolo. Essa rappresenta l’archetipo del rifugio, ma anche del selvaggio.  Da selva, foresta. Risuona in noi il richiamo atavico che London ci ricorda appartiene al mondo animale ed è per questo, in via evolutiva, patrimonio delle umane genti che cercano in essa la possibilità di ripercorrere quella via al contrario. Ritornare al vero sé. Vanaprastha: in India indica il terzo stadio della vita dell’uomo. “Dopo aver visto le proprie rughe e la propria canizie e dopo aver conosciuto i figli dei propri figli,  cominciando a percepire la vanità dei beni terreni, l'uomo si ritirava, da solo o con la moglie, ai margini del villaggio o in qualche eremitaggio della foresta, Vana, diventando così un Vanaprastha, uno che dimora nelle selve, dedito alla nonviolenza, alla meditazione e alla ricerca interiore, con lo scopo di realizzare un progressivo distacco dai beni di questa vita.

Essa racchiude in sé elementi specifici che ne fanno più di altri luogo privilegiato per rappresentare questo incontro con il sé più profondo. Val Grande è storia di montagne, non particolarmente elevate. Ci si trova infatti a ridosso delle alpi. E’ soprattutto storia di boschi, legname una volta prelevato in dosi massicce, oggi libero di crescere e moltiplicarsi. E’ storia di pascoli sfruttati e contesi, ora abbandonati. E’ storia di fatica. Immane, che ha abitato le nostre terre, come altre, fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Ed è come dicevo prima storia di una ricerca, primordiale, di fusione con l’elemento e di ritiro dal mondo civilizzato. L’istinto del cacciatore, in perpetua esplorazione, e quello del raccoglitore, che vi trova rifugio e protezione. Per questo accoglie spiriti inquieti, giovani avventurieri o semplicemente turisti del bello, della natura.

Come altri luoghi è stata teatro di battaglie, efferati omicidi o semplici tragedie dettate da imperizia o dal caso. Ma esse non hanno lasciato traccia, se non “a ricordo”, di ciò che è avvenuto. Questo è il suo grande valore, non avere memoria. Ed anche ciò che nell’uomo genera sgomento. L’indifferenza della natura alle umane vicende. In quei luoghi più che altrove si può percepire. Tutto passa. Anche i dolori più immensi, gli sforzi e le opere più grandi, inghiottiti dalla Val Grande che con la sua natura prorompente si riappropria di spazi che l’uomo ha occupato.

Di seguito l’articolo tratto dal libro. Maggiori informazioni rispetto ad itinerari ed il forum sul Parco nel sito:

http://www.in-valgrande.it/

 
Articolo tratto da “Escursioni in Val Grande” di Bernhard Herold Thelesklaf e Teresio Valsesia.

Val Grande: “L’ultimo paradiso”

Il Parco nazionale della Val Grande è considerato l’area selvaggia più vasta d’Italia e dell’intero arco alpino. Questa constatazione suscita subito una certa meraviglia perché la Val Grande è contigua alla regione del Lago Maggiore ad alto sviluppo turistico e densamente popolata, nonché ai margini della pianura padana, una della maggiori aree industrializzate d’Europa. Uno dei promotori del Parco Nazionale, Teresio Valsesia, definisce la Val Grande, nel suo libro pubblicato nel 1985, come “ultimo paradiso”. Chi vi approda non riesce facilmente a lasciarlo. Il Parco nazionale della Val Grande consiste essenzialmente in due valli principali, la Val Pogallo e la Val Grande vera e propria. Quest’ultima confina con la Val d’Ossola che sin dall’antichità è stata considerata un importante corridoio per attraversare le Alpi. La Val Grande e la Pogallo sono divise da una catena montuosa non molto alta, ma complessa e dirupata. Questa parte centrale del Parco è quella che comprende l’area di Riserva Integrale ed è caratterizzata dalla presenza del monte Pedum (quello alle cui pendici si sono raccolti i partigiani ricordate?). Il monte Pedum ha una cresta il cui profilo, visibile dall’autostrada, ricorda, dice Clara, la faccia del Presidente Scalfaro. La Riserva Integrale invece è quella parte del Parco che non è accessibile, in teoria, da nessuno. Essa è istituita per ridurre al minimo l’impatto dell’essere umano. Per difenderla dall’uomo. La stessa morfologia si riscontra tra la Val Grande e l’Ossola, ed è molto evidente anche dal treno Domodossola – Milano. A nord della Val Grande si trova la Valle Vigezzo, che collega Domodossola a Locarno (Svizzera) attraverso le Centovalli che è una valle situata già in territorio svizzero.

Tra la Vigezzo e la Val Grande si innalzano le montagne più alte del Parco nazionale (2200-2300m). Anche la parte orientale è delimitata da una catena montuosa, che separa la Val Pogallo dalle valli Cannobina e Intrasca. La Val Grande è quindi circondata da montagne a ferro di cavallo che ne rendono problematico l’accesso. Verso sud il torrente San Bernardino, che sfocia nel Lago Maggiore a Verbania, ha formato nel corso del tempo una valle profondamente incassata e nella Val Grande una gola lunga nove km che ne complica ulteriormente l’accesso.

Le difficoltà di approccio sono confermate dalla localizzazione di Cicogna, che è l’unico centro abitato tutto l’anno in Val Pogallo e che solo negli anni ’20 è stato raggiunto dalla strada carrozzabile. In precedenza, per secoli una mulattiera verso Cossogno aveva rappresentato il collegamento più diretto con il mondo esterno.

Dal paesaggio culturale all’area selvaggia 

La parte superiore della Val Grande è stata popolata nel medioevo dall’Ossola e dalla Vigezzo, e ricade sui Comuni di Premosello-Chiovenda, Beura-Cardezza, Trontano, Santa Maria Maggiore e Malesco. In quest’area (parte superiore), ceduta in gran parte negli anni ’60 all’azienda forestale dello Stato, le uniche possibilità di sfruttamento per gli uomini sono state l’apicoltura e l’economia forestale. L’agricoltura è stata possibile solo nella parte inferiore della Val Grande e unicamente con grande fatica. Per ottenere dei modestissimi appezzamenti coltivabili era necessario costruire terrazzamenti che risolvevano il problema dei terreni scoscesi. Lo sfruttamento delle distese boschive invece era già iniziato nel XV secolo, a partire dal Monte Faiè, che fu messo a disposizione per costruire il Duomo di Milano da parte del duca  Gian Galeazzo Visconti. L’economia forestale si è estesa in seguito in Val Grande  e in Pogallo e si è intensificata tra il XVIII e la metà del XX secolo. Non è raro trovare lungo i sentieri i resti delle antiche teleferiche, opere di ardita concezione in grado di trasportare legname. In epoche più antiche esso veniva invece depositato nei corsi d’acqua in attesa della “buzza” che portava poi tutto a valle.    Durante la seconda guerra mondiale la Val Grande servì come rifugio per diversi gruppi di partigiani, che però nel rastrellamento del giugno 1944 subirono una pesante sconfitta con la distruzione di numerosi alpeggi. Questo drammatico evento insieme alla forte crescita dell’industria nel Verbano e nella bassa Ossola (con la conseguente domanda di manodopera) ha determinato in pochi anni il crollo dello sfruttamento alpestre nel territorio del Parco nazionale. Anche l’esbosco è stato interrotto poco dopo l’ultima guerra. La Val Grande fu abbandonata a se stessa e nei decenni successivi non venne considerata quasi più da nessuno. 

E’ una valle incassata, a quote molto basse (circa 400 metri). Solo nella parte superiore si innalza oltre i 2000 m.: questa morfologia ha favorito la rapida modifica della vegetazione. I prati e i pascoli sono stati occupati dagli arbusti e dagli alberi mentre i boschi si sono ripresi dopo lo sfruttamento intensivo. Oggi la valle ha assunto un aspetto selvaggio, anche se non si tratta di un paesaggio naturale, avulso dall’influenza dell’uomo. Sull’arco alpino le aree simili sono molto rare e molto meno estese mentre domina il paesaggio culturale antropizzato. Oggi il termine “wilderness” (area selvaggia) viene però utilizzato anche per connotare paesaggi culturali ridiventati selvaggi come quello della Val Grande.

La prima Riserva naturale alla fine degli anni ‘60  

Dopo la seconda guerra mondiale è stata necessaria l’azione di diverse persone per realizzare il Parco nazionale, diventato realtà il 2 marzo 1992. Precedente a questa la nascita, nel 1967, della Riserva Integrale del Pedum (973 ettari). Questa prima zona del parco gode di una protezione quasi totale. Oggi vi si può accedere, si trova appunto nel cuore del parco stesso, solo con autorizzazione e per scopi di studio. Nel 1970 seguì la Riserva orientata del Mottàc (2410 ettari, area anch’essa inglobata oggi all’interno del Parco, situata a nord). Per lungo tempo le due Riserve sono esistite unicamente sulla carta. Soltanto all’inizio degli anni ’80 sono stati delimitati i confini e costruiti due rifugi per i forestali. 

Un nuovo concetto di “Wilderness”

Negli anni ’70 le Sezioni “Est Monte Rosa” del Club Alpino italiano e Italia Nostra hanno incominciato a operare per la creazione di un Parco nazionale nell’intera area. Contemporaneamente si diffondeva in Italia una nuova concezione di tutela ambientale, sulla base della “wilderness” degli USA. In questo caso non si tratta semplicemente della protezione e della tutela di una “Wilderness” (sottratta all’influenza dell’uomo), ma dell’interazione tra l’uomo  e la “Wilderness”. La quotidianità in un mondo altamente tecnologico e in continuo mutamento stimola in molti profonda nostalgia per una natura “non addomesticata”, un desiderio di solitudine e di esperienze spirituali, di avventure estreme e di un polo opposto alla civiltà della sicurezza e della disponibilità totale. La “Wilderness” diventa coscienza di un’area di proiezione per l’essere umano. Nel 1977, Franco Zunino, promotore italiano della “Wilderness”, al primo congresso a Johannesburg, avanzò la proposta di dichiarare la Val Grande la prima area “selvaggia” italiana. Quali, dunque, gli obiettivi del futuro Parco nazionale? Tutelare un paesaggio culturale ritornato selvaggio da un nuovo intervento dell’uomo? Quindi un’area senza interventi esterni, abbandonata a se stessa? Oppure nella disponibilità dell’uomo moderno per il rinnovamento spirituale e per il beneficio del fisico? Un’opportunità per l’uomo ormai estraniato dalla propria storia, come spazio di scoperta e di ricerca delle proprie radici di civiltà?

Nascita del Parco nazionale

L’allora ministro Valdo Spini attuò il disposto legislativo il 2marzo 1992. Nel 1998 il Parco nazionale venne ampliato di 29 Kmq complessivi (esattamente 14.598 ettari), inglobando ulteriori territori dei comuni di Aurano, Premosello e Vogogna, uscendo così dai confini naturali della Val Grande e della Pogallo. L’amministrazione del Parco è tenuta a rispettare il concetto di “Wilderness” nelle attività promozionali. La Val Grande non deve quindi rimanere nascosta all’uomo, ma disponibile come palestra ambientale e culturale, assicurando la disponibilità limitata delle infrastrutture per i pernottamenti e dei sentieri segnati. Mentre l’accesso alla Zona A (Riserva integrale del Pedum) è vietato, in altre aree non viene facilitato (a volte fortemente sconsigliato¹) e in altre ancora – senza intaccarne il carattere selvaggio – sono stati sistemati dei sentieri e realizzati nuovi rifugi utilizzando le baite con restauri conservativi per mantenerne le peculiarità architettoniche originarie. Alcune mete facilmente raggiungibili, come l’alpe Scaredi o Pogallo, sono molto frequentate durante il fine settimana, tra luglio e settembre, e durante le ferie agostane. Tuttavia, nei periodi meno affollati, si riesce ancora a camminare per giorni in molte zone senza incontrare nessuno. Il silenzio intenso, o meglio la mancanza totale di rumori causati dall’uomo, la natura molto folta, le testimonianze degli uomini e delle donne che in passato vi hanno vissuto e lavorato, tutto ciò crea il fascino di questa valle non solo grande, ma magnificamente imponente.   

 

Note

1:  la percorrenza di alcuni sentieri è stata vietata da ordinanze comunali dopo che si erano verificati incidenti in cui sono rimaste vittime delle persone. L’ultimo caso riguarda due ragazzi svizzeri che hanno tentato l’ingresso da un accesso poco frequentato alla Valle. Accampati nella notte sul greto di un torrente sono stati sorpresi da improvviso temporale, l’acqua li ha travolti ed uccisi.