SOMMARIO
Anno V
Numero 1
Aprile 2013
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ARCHIVIO
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VESCOVI E CAVALLI
Flavia Negro |
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Ne
I Miserabili di Victor Hugo si racconta a un certo punto di un vescovo
che, giunto in una cittadina a dorso di un asino, viene accolto dalle
risate dei fedeli e dallo sguardo sconcertato del sindaco che lo
aspettava di fronte al vescovato. Per nulla turbato, il vescovo
zittisce i presenti con una semplice affermazione: «Signor
sindaco e signori borghesi, vedo quello che vi scandalizza: voi trovate
che ci vuol molto orgoglio, da parte di un povero prete, nel far uso
d'una cavalcatura che fu quella di Gesù Cristo. L'ho fatto per
necessità, ve lo assicuro, e non per vanità».
L'episodio, ambientato nella Francia del XIX secolo, gioca su un dato
di fatto che tutti - vescovi e non - avevano sempre dato per scontato:
con buona pace di Gesù Cristo, che per entrare a Gerusalemme
aveva scelto come cavalcatura un'umile asina, era su un cavallo,
simbolo per antonomasia di nobiltà, ricchezza e potenza, che ci
si aspettava di veder arrivare un vescovo. L'asino, semmai, era usato
in segno di scherno da chi voleva offendere un prelato considerato
troppo fastidioso o indegno della sua carica. Fra l'VIII e il XII
secolo è attestato un rituale particolarmente infamante per
segnare la deposizione di un papa che si era macchiato di colpe gravi:
quest'ultimo doveva percorrere le vie della città in groppa a un
asino e per giunta seduto al contrario, con in mano la coda a guisa di
redini. E nel 1289 i fiorentini, quando vogliono far capire che ne
hanno fin sopra i capelli delle trovate del vescovo di Arezzo, vanno
sotto le mura della città con un buon numero di asini, e
perché sia chiaro a tutti chi è il destinatario dei loro
sberleffi mettono sulla testa di ogni animale una mitra, il copricapo
dei vescovi, e gli fanno correre il palio.
Al contrario, le cronache e i documenti medievali testimoniano che il
cavallo costituiva l'ingrediente irrinunciabile di tutte le occasioni
più solenni e importanti della carriera episcopale, a partire
dalla consacrazione. Una solenne cerimonia sanciva, dopo la nomina,
l'ingresso del nuovo vescovo nella città cui era stato
destinato. Il rito prevedeva che il titolare della diocesi si
presentasse alla porta principale della città, dove l'intera
cittadinanza stava ad aspettarlo, in sella a un destriero addobbato con
sgargianti paramenti. Fra due ali di folla il vescovo percorreva poi a
cavallo le vie cittadine fino a raggiungere il duomo e il palazzo
vescovile: le principali famiglie locali si contendevano - a suon di
denaro, e quando occorreva con lunghe e costose cause in tribunale - il
privilegio di accompagnarlo tenendo le briglie dell'animale, e quando
il vescovo scendeva da cavallo per entrare nella sua dimora proprio la
sella e le briglie, quando non lo stesso cavallo, erano gli ambiti
trofei che rimanevano nelle mani dei fortunati. La famiglia torinese
dei Pollastro, che già nel 1391 dichiarava orgogliosamente agli
ufficiali del comune di detenere "ex privillegio antiquissimo" il
diritto di tenersi il cavallo con cui i vescovi entravano in
città, carte alla mano rivendicò tale privilegio ancora
nel 1514: fu così che Gian Francesco della Rovere, il giorno in
cui fece il suo solenne ingresso a Torino, dovette suo malgrado cedere
la cavalcatura a Pietro Pollastro, che gli si era parato innanzi
sventolando con orgoglio le pergamene di famiglia che provavano i suoi
diritti.
La complessa ritualità e lo sfarzo profuso in queste occasioni
raggiungevano l'apice quando il protagonista era un arcivescovo, magari
esponente di una grande famiglia di signori come Raimondo della Torre.
Il 19 luglio 1274 Raimondo parte da Milano per il viaggio che lo
porterà, un mese dopo, a prendere possesso della sede
patriarcale di Aquileia, in Friuli. Durante il percorso l'arcivescovo
fa tappa in tutte le principali città che incontra sulla sua
strada - Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso - ma ad influire
sulla durata del viaggio è anche l'enorme seguito che il Della
Torre aveva voluto con sé: oltre ai sessanta scudieri
dell'arcivescovo, scelti fra la nobiltà milanese, fanno parte
del corteo diverse centinaia di cavalieri, fra i quali cinquanta
cavalieri "aurati", che avevano cioè ricevuto il cingulum
militiae e gli speroni d’oro, ognuno con uno scudiero e quattro
cavalli. Anche Giovanni Visconti, arcivescovo di Milano e membro della
più importante famiglia milanese, decide di organizzare un bel
corteo per accogliere un alto dignitario ecclesiastico di passaggio
nella sua città. L'episodio è riportato in una cronaca
trecentesca molto divertente, scritta in volgare romanesco, e vale la
pena di seguirlo attraverso le parole dell'autore. Pare dunque che
l'arcivescovo si fosse presentato di fronte al legato papale con
"cinque destrieri copierti de scarlatto, menati a mano", ma
quest'ultimo, trovando francamente eccessivo tutto quello sfarzo in un
uomo di chiesa, lo aveva rimproverato: "Arcivescovo, que pompa, que
vanagloria è questa?". Dalla pronta risposta di Giovanni
Visconti si capisce come l'umiltà non fosse certo la prima
preoccupazione degli ecclesiastici dell'epoca, ai quali interessava
più di ogni altra cosa dimostrare ai loro superiori che,
all'occasione, potevano tornare loro molto utili grazie alle sostanze
di cui disponevano: "Legato, questa non ène pompa, ma ène
ca voglio che saccia lo Patre Santo ca esso hao sotto de si uno
chierichetto lo quale po’ qualche cosa".
Quale sia l'attività in cui i cinque destrieri dell'arcivescovo
avrebbero potuto tornare utili al papa è facile capirlo, se
parliamo dell'Italia del Trecento: ovviamente la guerra. E' il secolo
di papi come Bonifacio VIII - quello cui Dante riserva, mentre è
ancora in vita, un posto d'onore nella bolgia infernale dei simoniaci -
e di Giovanni XXII: papi per i quali lo splendore della Chiesa
dev'essere innanzitutto misurato sui campi di battaglia. Non stupisce,
allora, che in barba ai precetti evangelici e alle voci di riforma che
si levavano anche allora all'interno della chiesa, i vescovi medievali
considerassero la guerra come parte integrante del loro magistero. Con
una certa dose di pragmatismo e non poca ironia Raterio di Verona,
grande vescovo riformatore e famoso trattatista del X secolo, a chi gli
contestava che ai chierici è interdetto il combattimento
rispondeva che per quel che ne sapeva ai chierici era vietato anche
fornicare, ma non gli risultava che questo avesse mai costituito un
problema. Fra i prelati molto più a loro agio ad impugnare la
spada che il pastorale vi è certamente il vescovo di Arezzo
Guglielmino degli Ubertini, quello cui i fiorentini avevano dedicato il
palio con gli asini. Un cronista dell'epoca ci dice che il vescovo era
"più uomo d'arme che d'onestà di chericia", e in effetti
Guglielmino non aveva avuto alcuno scrupolo a mettersi alla guida
dell'esercito della sua città, e aveva infine trovato la morte
nella celebre battaglia di Campaldino (anche se a dire il vero, a dare
credito a quello che raccontano i suoi detrattori, pare che in
quell'occasione avesse cercato di salvarsi la pelle scambiando la sua
corazza con quella di un suo nipote, per non essere riconosciuto). E
non sono pochi i vescovi di cui ci sono rimaste rappresentazioni
iconografiche che li mostrano a cavallo e in atteggiamenti che alla
sensibilità di oggi paiono stonare con il loro ruolo di
religiosi. Così nella moneta qui sotto vediamo Sant'Ambrogio,
arcivescovo di Milano, che brandisce uno staffile e si lancia al
galoppo contro i nemici.
Mentre nella rocca di Angera (Varese) è ancora oggi visibile un
affresco che rappresenta l'arcivescovo milanese Ottone Visconti a
cavallo mentre entra vittorioso in città dopo la battaglia di
Desio (1277). La raffigurazione dell'arcivescovo in atteggiamento
pacifico e senza armi non deve ingannare: il dipinto è una sorta
di manifesto pubblicitario e mira a trasmettere un'immagine positiva e
rassicurante del presule e della sua famiglia, in quel tempo impegnati
a prendere il potere in Milano. Noi sappiamo che Napoleone della
Torre, il nemico dell'arcivescovo raffigurato in ginocchio in
atteggiamento di sottomissione, avrà una ben triste fine,
terminando i suoi giorni nelle prigioni di Como.
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