SOMMARIO

Anno V
Numero 1
Aprile 2013

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ARCHIVIO

 

 

 

 

Ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere alcuni ufficiali e cavalieri di “Savoia” che hanno partecipato alla carica di  quota 213 in russia  il 24 agosto del 1942, primo fra tutti l'allora tenente Gotta, uomini poderosi e cavalieri formidabili, ho avuto anche la fortuna di conoscere Luigi Gianoli diventato giornalista e scrittore dopo la guerra, quando collaboravo con la rivista di settore “lo Sperone” aveva classe e stile con spiccate doti umane, non ho potuto fare a meno d’inserire un suo vecchio pezzo, pubblicato allora in cui LUIGI Gianoli parla del suo  Comandante Alessandro Bettoni, grazie a loro l’Alpitrek è andato in Russia nel 1998 seguendo le orme lasciate dai cavalli di Savoia, leggetelo non è interessante è molto di più.

Alessandro Bettoni, nel ricordo personale di Luigi Gianoli che aveva combattuto ai suoi ordini nella campagna di Russia e poi lo aveva seguito come giornalista sui campi di gara di mezza Europa.

LA CLASSE, IN BATTAGLIA E NELLA VITA
di Luigi Gianoli


colonnello Bettoni

L’ho conosciuto e l'ho ammirato e amato come comandante di Savoia e come cavaliere sommo nei grandi concorsi internazionali. Le due figure non differiscono: Alessandro Bettoni era soprattutto un gentiluomo, un uomo generoso e gentile ma, all’occorrenza energico. Piccolo, magro sino ad apparire sparuto, lo ricordo conversare in certe occasioni con garbo, con eleganza, e tuttavia imporre, sia pur con riguardo, la propria autorità. Ho vaghi ricordi nella memoria delle sue prodezze in campo ostacoli con Scoiattolo, binomio che suscitava entusiasmo nel pubblico e ammirazione in chi montava a cavallo. Come entrava in campo era un percorso netto garantito, un percorso agile, rapido, sicuro, come del resto con tutti i grandi cavalli che ebbe poi a disposizione. Dissi e scrissi che Alessandro Bettoni era stato l'ultimo cavaliere romantico erede di quel delicato e antico codice aristocratico per cui forma, stile e gli stessi obblighi mondani si fondevano miracolosamente in lui insieme coi più sacri doveri morali. La necessità di ogni gentiluomo, dì tener fede a questi doveri ha segnato fatalmente il percorso spirituale dell'uomo, del soldato e del cavaliere. L'uomo fu amabile, purché si sapesse stare al suo livello, all'altezza cioè di quello che un tempo si definiva "classe", una virtù che non collimava nè col censo nè con la cultura. Era una virtù che esigeva dagli uomini, lealtà sincerità, impegno al massimo livello in ogni gesto, in ogni istante, in ogni attività. Per cui sapeva trattare con l'ultimo soldato direttamente e benignamente restituendo ad esso quel valore immenso che chiamiamo umanità, purché avesse riconosciuto in lui quelle doti che cercava ovunque nella gente, negli amici, nei compagni. Così come detestava e respingeva il nobile o il ricco presuntuoso, fanfarone, banale, volgare. Svicolava subito da simili personaggi con una smorfia di disgusto che non si preoccupava di celare. Coi soldati, poi, era addirittura paterno e perdonava spesso le loro mancanze purché fossero loro stessi a denunciarle. Leggero, elastico, in sella usava la gamba con fermezza imponendo la propria volontà con precisione e con rigore, ma la mano era estremamente morbida. La sua monta caprilliana, cioè nel rispetto della tradizione di Pinerolo badava al perfetto equilibrio del cavaliere. Non gli piacevano, per esempio, certe cedute ad effetto, come esternare teatralmente il proprio impegno in sella, ma cercava l'impulso riducendo al minimo indispensabile le azioni di comando. La sua forza stava nella volontà ferrea, che si manifestava al cavallo attraverso la gamba, tanto sottile quanto energica, e nell'andare "col cavallo" in ogni istante del lavoro e del percorso. Allo stesso modo quando venne a trovarsi alla testa del Reggimento, di Savoia Cavalleria, il suo modulo di comando fu sempre perentorio. Eppure non ordinava mai, gentilmente chiedeva. Addirittura ad un ordine aggiungeva un "per favore" di fronte al quale era necessario obbedire prontamente e sino in fondo. Non mostrò mai alcuna esitazione. Poteva sparare contro di noi un treno blindato, come al fronte di Gorlowka, che lui non si curava di cercar riparo, ma restava sul posto a viso aperto. Al massimo si spazientiva per l'uso dissennato, di quei cannoni sguaiati. A volte fissava i cavalieri prima di qualche azione con uno sguardo non privo di rincrescimento, di compassione e una volta lo sentii mormorare, nell'imminenza dì una azione a dir poco folle, imposta dal comando di Corpo d'Armata, «poveri figlioli». Ma gestì l'azione stessa con intelligenza, con acutezza tanto da rientrare senza perdite. E, al ritorno, fu felice. E quando un cavaliere, che stava dissellando, lo guardò in faccia con un lampo di riconoscenza, lui, commosso, gli passò una rapida carezza sulla guancia. In silenzio si erano intesi. E infatti ci si intendeva così senza dir parola, pro¬prio come il 24 agosto 1942 quando da un accerchiamento, da una stretta angosciosa operata da due reggimenti siberiani, fece partire la carica quasi con il cenno di una mano. Si era limitato a dire: «Abba, tu va avanti a piedi. De Leone gira attorno a quello stagno e poi attacca». E che Dio ci assista, mormorò tra sé. Diede poi altri ordini, a Litta, a Marchio, ma con due, tre parole soltanto. E quando gli fu chiesto come fosse nata la più bella e insieme l'ultima carica della cavalleria italiana lui rispose con semplicità: «Per conto suo. L'avevano provocata i nostri avversari».
Questo suo spirito gentile, misurato, rispettoso di tutto e di tutti, anche del nemico stesso, infiammò sino alle radici il Reggimento, che avanzava, combatteva, vinceva con la gioia di liberare e col timore di offendere.

carica

Il suo primo grande cavallo, quello che lo rese famoso in tutta Europa, fu Scoiattolo. Era un cavallo di truppa, un irlandese giunto in Italia per le rimonte dei reggimenti di cavalleria, aveva partecipato alla prima guerra mondiale montato da un ufficiale coi colori del Reggimento Lancieri Vittorio Emanuele II. Durante un bombardamento aveva riportato una ferita gravissima, da scheggia di granata. Ricoverato in una infermeria, vi restò sei mesi sollevato da cinghie in quanto non poteva reggersi. Miracolosamente guarito, alla fine del conflitto venne messo all'asta e Alessandro, insieme col fratello Francesco, pure abilissimo cavaliere, lo comperò. In breve si rese conto di aver acquistato un campione. Per dieci anni lo portò a vincere in tutta Europa. Era di quei cavalli obbedienti, sempre pronti a dare il cuore, intelligente. Aveva fiducia negli uomini, probabilmente perché lo avevano curato e guarito, e quindi si prodigava per favorire colui che lo montava - uno di questi uomini. Del resto, da buon irlandese, si divertiva a saltare. Aveva un occhio infallibile, una spinta prodigiosa.
Poi Bettoni ebbe Aladino, un magnifico purosangue intero, che lui sapeva dominare con incredibile bravura. Più tardi elaborò un anglo-arabo, Judex.
Per non staccarsi da un cavallo che amava e col quale era sicuro di vincere le maggiori gare del mondo, un certo San Vito, un grigio che era stato acquistato da Pirelli, se lo portò in guerra, prima in Jugoslavia, dove su un campo ostacoli di fortuna, cominciò ad addestrarlo ottenendo platoniche soddisfazioni; quindi in Russia dove purtroppo il grigio si infortunò impigliandosi in un filo del telegrafo caduto a terra e producendosi un taglio profondo al posteriore sinistro. Lo rimandò in patria, ma di San Vito non si seppe più nulla.
Rientrò nei 1947 in campo a Roma, con Urano, un vistoso saltatore di notevole potenza, e poi con Litargirio; fù questo, il suo ultimo, il suo estremo amico.
Sempre più magro, fumava dal mattino alla sera, si era fatto un po' impaziente, un po' nervoso, e tuttavia lavorava i cavalli con l’impegno e l’ostinazione di sempre. Litargirio era un cavallo sontuoso, un bell'atleta. Ma quel giorno, a Piazza di Siena, Bettoni dopo aver lavorato il suo allievo in campo di prova, sentì qualcosa dentro di sé, un avvertimento, una minaccia, qualcosa che lo convinse a non montare in gara. Si avvicinò a Piero d’Inzeo e gli chiese di montarlo lui, il suo cavallo, il suo Litargirio. “Ma perche?” gli chiese Piero. “Non mi sento bene, c’è qualcosa che non va . Ti prego, sii gentile....” Piero accettò l'invito e corse a provare Litargirio con il quale compì un bellissimo percorso. Quando smontò da cavallo per andare a riferire a Bettoni le proprie impressioni sul magnifico cavallo, non lo trovò. Lo avevano portato via di fretta. Stava male, stava davvero male. Lo avevano portato all'Hotel Savoia, dove alloggiava, ma Piero non potè più rivederlo vivo. Era la fine di quel male che non perdona gli uomini troppo appassionati della vita, troppo impegnati nell'attività che più amano, e non perdona ai cuori che hanno amato, patito, sofferto senza risparmio. Era il mese di aprile dell'anno 1951. La parabola dell'uomo ci ha portato fuori dal percorso del cavaliere, dalla serie infinita di vittorie da lui conquistate prima e dopo il grande conflitto. Ebbe compagni e avversari dei cavalieri  prodigiosi che si chiamavano Lequio, Valle, Alvisi, Caffaratti, Borsarelli, Spighi, Santarosa, Beraudo di Pralormo, Pacini, Formigli, Foquet, ed ebbe maestro il grande Ubertalli, il più grande istruttore che l'Italia abbia mai avuto, più grande, in un certo senso, dello stesso"Caprilli. Convisse magnificamente con tanti compagni-rivali essendo stato uomo alieno da ogni invidia, generoso con tutti, disposto persino a venire escluso da una gara in favore di un altro concorrente senza battere ciglio. E però sempre si presentava ben montato, in forma perfetta, lui e il cavallo. Contrariamente a molti che parevano preoccupati di limitare l’azione per portare l’equilibrio sul posteriore sino al momento di spiccare il salto, Bettoni era dotato di una grande sensibilità e, pieno di slancio, senza titubanza alcuna, abile nel percepire ogni istante l'equilibrio del cavallo, lo spingeva in piena gagliarda azione sull’ostacolo con invidiabile leggerezza. Partecipò a una infinità di Coppe delle Nazioni. 43 volte dal 1925 al I939, 17 volte con Aladino, 6 con Scoiattolo, 12 con Judex; fu alle Olimpiadi di Amsterdam, 1928 e alle Olimpiadi di Berlino, 1936. Lo troviamo ancora attivissimo nel 1939 con Adigrat  concorrere ai successi italiani a Berlino, a Roma, a un piazzamento a Londra. Fu sempre e dovunque grandissimo cavaliere. “Eppure, mi confidò un giorno, in Russia - dovevo fare la carriera diplomatica.  Ma a Montaldo di Roero, dove trascorrevo le vacanze come tutti gli alunni del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, incontrai i cavalli, e fu il colpo di fulmine. Li avrei trovati anche più tardi nel 1913 quando venni assegnato ai Lancieri di Montebello, ma forse la ferita al cuore sarebbe stata diversa, meno profonda, meno provocatoria. E ora sono qui, in guerra, su questo magnifico grigio col quale andrò a vincere a Dublino, ad Aquisgrana, a Roma."