SOMMARIO

Anno XV
Numero 24
Aprile 2023

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ARCHIVIO

 

 

 

 

La Repubblica Spagnola stremata si arrende nel caos
di Gian Franco Venè

Uno dei pezzi più belli scritti sulla fine della guerra civile Spagnola,la resa della Repubblica, Venè descrive i fatti, descrive molto bene, la Repubblica dilaniata da lotte  interne più feroci addirittura di quella contro “los moro”, istanti poco conosciuti e molto poco conosciuti. Dramma che si trasforma in tragedia, demenziale alleanza tra democratici, anarchici e stalinisti,  contro Franco per giunta scambiandolo per fascista mentre era un reazionario feudale che rappresentava e difendeva il medioevo cattolico spagnolo, la fine delle Brigate Internazionali, composte dalle anime migliori della Rivoluzione distrutte in  un colpo solo a beneficio esclusivo dell’attuale democrazia. (M.F.)

Caduta la Catalogna, la repubblica di Spagna entra nell'ultima fase dell'agonia. Non sarà una morte onorevole, se non per gli ultimi, sconosciuti, eroi. I politici, in buona o cattiva fede, si scambiano accuse di incompetenza o di vigliaccheria. Tutti sanno, orma», che il massacro finale è inevitabile; ma nell'estremo tentativo di contenerlo non si fa che accelerarne il compimento. E’ questo il momento, tra la fine gennaio e il marzo del 1939, in cui la guerra civile spagnola sta per figliare un'altra guerra civile all'interno della stessa repubblica.
« Madrid que bien resiste », come dice la leggendaria canzone repubblicana, ha smesso da tempo d'essere l'eroica capitale di un sogno democratico. I mitici rivoluzionari fanno i bagagli negli stessi giorni in cui le ultime truppe repubblicane organizzate attraversano la frontiera francese nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. Il Presidente della repubblica Azaña è in Francia, a Tolosa, già il 5 febbraio. Tre giorni dopo lo raggiunge Negrín, capo del governo, seguito dai ministri.
Dal punto di vista militare, dove i repubblicani non sono ancora stati sconfitti, massacrati o dispersi, l'estremo appello alla mobi­litazione generale non fa che esasperare le defezio­ni e il caos. Polizia e carabineros vengono chiama­ti a far parte dell'esercito repubblicano combattente; ma la maggior parte di lo­ro si disperde o cerca di passare dalla parte franchi­sta. Le frontiere sono inta­sate di profughi finché il governo francese, per fare un po' d'ordine nella bi­blica fuga degli spagnoli, non decide di lasciar pas­sare solo le donne e i bam­bini respingendo verso il massacro tutti gli uomini validi. Gli storici, sulla ba­se delle innumerevoli te­stimonianze giornalistiche di quei giorni, segnalano tuttavia, a testimonianza del coraggio degli scon­fitti, l'ordine composto con cui le truppe combattenti repubblicane reduci della Catalogna passano la fron­tiera.
La fuga in Francia dei poli­tici, per quanto compren­sibile sotto ogni aspetto, pare ai resistenti di Madrid e dei pochi territori an­cora liberi la riprova che non c'è più nulla da fare. Si crea tra i vari grup­pi combattenti un'ostilità verso i dirigenti che aggra­va ancor più la situazione. Eppure i politici radunati a Tolosa sono tutt'altro che decisi a una resa incondi­zionata.
Negrín rispolvera i suoi « tredici punti » stilati l'an­no precedente in vista di una composizione della guerra civile. Certo, la si­tuazione è ora estremamen­te più grave. Negrín ridu­ce quindi i « tredici pun­ti » a tre soltanto e vaghi: 1) garanzia dell'indipen­denza e dell'integrità del territorio spagnolo; 2) ga­ranzia di libertà nella scel­ta politica futura da parte degli spagnoli; 3) nessuna rappresaglia.
Qualora Franco non accet­tasse di discutere questi tre punti il governo ritornereb­be in Spagna per organiz­zare, pur senza alcuna pos­sibilità di vittoria, una resi­stenza fino all'ultimo uo­mo. Franco rifiuta qualsia­si negoziato. Il suo rifiuto era d'altronde scontato. Priva ormai dell'appoggio internazionale (la solida­rietà democratica dell'Eu­ropa si esprimeva ormai soltanto e avaramente in promesse di ospitalità po­litica), dilaniata dai contra­sti interni, militarmente di­sfatta, la repubblica di Spagna era ormai per Fran­co un territorio devastato dove celebrare senza altri sforzi sforzi il trionfo della ribel­lione nazionalista
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Ma Negrín pretende di es­sere coerente all'impegno preso nel formulare i tre punti della resa; e poiché i tre punti sono stati re­spinti si accinge alla « re­sistenza a oltranza ». Ed è qui che il governo rompe con i combattenti repub­blicani. I militari di carrie­ra della repubblica, come il generale Rojo sconfitto in Catalogna, sanno con cer­tezza che ogni resistenza è ormai impossibile. « Con che cosa resistere? » do­manda Rojo; « E perché resistere? ». Gli storici Brouè e Témime scrivono: « Per molti militari infatti la guerra è finita. Le Temps del 9 febbraio annota la scelta operata dagli ufficia­li dell'entourage militare di Azaria: essi sono decisi a riunirsi alla Spagna nazio­nalista. Tra i capi militari che constatano la disfatta e il governo che ravvisa ancora la possibilità di una resistenza, non può nasce­re alcuna intesa ». è assolutamente ingiusto, tuttavia, dire che militari e governo sono su posizioni opposte. In nessun periodo della guerra di Spagna co­me questo le parole tena­cia, eroismo, coerenza, opportunismo sono altrettan­to equivoche. La realtà è che tanto gli esponenti del governo quanto i militari cercano il modo più ono­revole per salvare la vita e la propria credibilità. Ciascuno perciò si compor­ta in base alla propria pro­fessione: i politici puntano sulla resistenza a oltranza senza badare al massacro militare, nella speranza di ottenere da Franco qual­che concessione. I militari calcolata la debolezza og­gettiva delle proprie forze tendono a dichiarar chiu­sa la sanguinosa partita per ottenere in cambio almeno l'onore delle armi e per accaparrarsi, in più di un caso, un posto pari-grado nel vittorioso esercito fran­chista. Benché nessuno sto­rico dubiti di ciò, è un fatto che per anni o decen­ni, dopo la fine della guer­ra civile spagnola, reduci politici e militari hanno continuato a polemizzare sui reciproci atteggiamenti di quelle ultime settimane della repubblica. Formalmente Negrín appare come un resistente indomito. In realtà egli tenta soltanto di resistere nella convinzione, non certo errata, che la Seconda Guerra Mondiale sia ormai imminente. Con Alvarez del Vayo, Negrín crede che la guerra mondiale antifascista porterà alla Spagna repubblicana l’appoggio concreto delle democrazie e che il fronte spagnolo diventerà internazionale. Co­me qualcuno ha fatto no­tare, Negrín non tiene con­to, tuttavia, che il Paese un tempo più interessato alla sopravvivenza e alla vittoria della Spagna re­pubblicana, l'Urss, si è an­data sempre più avvicinan­do alla Germania hitleria­na per motivi di politica estera.
Di conseguenza l’Urss. indipendentemente dai desideri dei comunisti spagnoli decisi alla resi­stenza a oltranza con Negrín, è ben lontana ora dal garantire aiuti alla repubblica. A Tolosa, nei tumultuosi consigli del governo Negrín predica il ritorno immediato dei ministri di Spagna. I comunisti sono tutti solidali con lui e con Del Vayo. E’ il presidente Azaña che si oppone: per lui la guerra è finita. La sua destinazione è Parigi.

Azaña si dimette: gli succede, di diritto, Martinez Barrio: ma compie un solo gesto politico: quello di rifiutare di tornare in Spagna. Fa nulla: Negrín di­chiara, sostenuto dai comu­nisti, che il governo ripren­derà il proprio posto, in territorio spagnolo, anche senza presidente della Re­pubblica.
E una mattina di fine feb­braio Negrín e i ministri at­terrano all'aeroporto di Los Llanos. Convocano i capi militari e si sentono dire - o meglio ripetere - che qualsiasi speranza di resistere è follìa. Solo il vecchio generale Miaja pro­nuncia qualche parola più ottimista. Ma la realtà, vista in prospettiva, è ancora più grave di quanto i militari non dicano. La sconfitta, il contrasto di opinioni tra militari e go­verno legale, la generale demoralizzazione, esaspe­rano la frattura tra i vari gruppi politici repubblica­ni. Al disaccordo tra poli­tici e militari si aggiunge ora quello tra socialisti, anarchici e comunisti. L'alleanza tra partito comu­nista e governo, l’uno e l'altro decisi alla resistenza, provoca, per contrasto, un fronte compatto tra mili­tari, socialisti e anarchici. L'atteggiamento « ragione­vole » dei militari viene ora condiviso da tutti coloro che mai hanno tollerato la leadership del partito co­munista durante la rivolu­zione e la guerra civile. Negrín sì rende conto di questa situazione nuova e grave quanto quella mili­tare. Gli oppositori antico­munisti fanno gruppo at­torno a un colonnello dal passato irreprensibile: Se­gismundo Casado.

È ben difficile accusare quest'uo­mo di tradimento; è im­possibile sospettare in lui un filo-franchista dell'ulti­ma ora. Militare di carrie­ra è politicizzato a sinistra: le sue simpatie dichiarate vanno ai socialisti e agli anarchici. Nei comunisti egli vede, invece, un partito troppo compatto e autori­tario: quasi un concorrente dell’esercito.

Il colonnello Casado è inol­tre convinto che una pace onorevole con Franco potrà essere ottenuta solo da tecnici di guerra, ossia da militari. Di sicuro, egli pensa, Franco rifiuterà qualsiasi trattativa finché nel governo ci saranno i comunisti.
Dato il clima di sfacelo della repubblica e l’impopolarità della parola d’ordine di Negrín circa la resistenza fino all’ultimo uomo, la proposta di Casado è bene accetta da tutte le forze politiche, natural­mente ad eccezione dei comunisti. Casado propone a Negrín l'immediata costi­tuzione di un governo sen­za comunisti: del governo dovranno inoltre far parte persone gradite alle demo­crazie occidentali e in par­ticolare all'Inghilterra.


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Il Colonnello Sigismundo Casado (al centro con gli occhiali) durante una riunione al suo quartier generale. Capo dell'esercito repubblicano del Centro e animatore della opposizione dei militari contro
Negrín, Casado formò con un vero e proprio "golpe" un governo senza comunisti

La proposta è puramente for­male: Casado sa bene che Negrín non può né vuole accettarla. Per ciò Casado agisce per proprio conto ponendo le basi di un au­tentico golpe politico-militare anticomunista. Prende accordi precisi con gli anarchici della FAI e con i socialisti: i sindacati esita­no, ma alla fine di febbra­io i rappresentanti anarchici prevalgono sui sindaca­listi leali a Negrín. A tutt'oggi non è ancora chia­ro quale consistenza aves­sero i rapporti segreti in­tessuti da Casado con rap­presentanti politici inglesi: non c'è dubbio, tuttavia, che diplomatici inglesi fu­rono suoi consiglieri nel colpo di Stato.
Alla fine di febbraio Negrín, pur non avendo an­cora fatto concessione al­cuna a Casado, sembra an­cora avere il controllo. Gli anarchici, pur avendolo de­nunciato come esponente di un partito, il comuni­sta, troppo ligio all'ordine e alla gerarchia, si rivolgo­no ancora a lui per ottene­re incarichi di responsabi­lità nelle operazioni di sgombero prima della re­sa. Temono infatti che i comunisti tendano a mettere in salvo solo gli alti fun­zionari del loro partito. Anche gli anarchici, come Casado e i socialisti, invocano da Negrín un rimpa­sto governativo che tolga ogni potere ai comunisti

Negrín risponde il 2 marzo con una mossa difficilmen­te comprensibile se si dà il giusto valore all'entità delle pressioni esercitate dai militari, dagli anarchi­ci e dai socialisti contro i comunisti. Rimpasta il go­verno, ma lo fa ad esclusi­vo vantaggio dei comuni­sti. Qualcuno, trascurando il fatto che il colpo di stato di Casado è già in atto, accusa Negrín d'essere a propria volta un golpista. Con una acrobazia politi­ca abbastanza banale in genere ma straordinaria ri­spetto alla situazione, Negrín tenta di eliminare Ca­sado giubilandolo: gli toglie il comando effettivo dell'esercito del Centro per assegnarlo a un comunista, ma lo promuove gene­rale. I porti principali, e quindi il comando della marina, vengono assegnati a militari di sicura fede co­munista.
La reazione alla mossa di Negrín è brusca e brutale. Nessun periodo della guer­ra civile di Spagna ha vi­sto una tale insorgenza di anticomunismo da parte degli altri gruppi di sinistra. Al PC, e quindi al governo Negrín, vengono attribuite tutte le principali responsabilità della sconfitta. Soffia­no sul fuoco gli agitatori franchisti che operano in territorio repubblicano. I comunisti, da parte loro, non paiono rendersi conto delle reali forze dei ribelli. Alcuni tra i più autorevoli si dichiarano sicuri di po­ter eliminare in poche ore qualsiasi tentativo di golpe. In effetti, la prima rivolta armata, quella di Cartagena, viene subito soffocata. A Cartagena è concentrata la flotta repubblicana: in questa ultima fase della guerra il porto di Cartagena ha un'importanza deter­minante non solo per la continuazione delle opera­zioni militari ma anche nel­la prospettiva di una fuga. Per questo Negrín ha dato il comando dei porto al comunista Paco Calan. (L’ammiraglio Buiza, predecessore di Galan, aveva mi­nacciato di allontanare la flotta se Negrín non si fos­se risolto a trattare la pace con Franco). La sostituzio­ne di Buiza con il comuni­sta Galan provoca la pri­ma, sanguinosa, esplosione ribelle anticomunista: la guarnigione si ammutina agli ordini di un comandan­te d'artiglieria, Almentia. La quinta colonna franchista si unisce ai ribelli fingendo di combattere per la loro stes­sa causa: in realtà si impa­dronisce della stazione ra­dio e comincia a trasmet­tere notizie, ordini e con­trordini falsi. Proprio nel timore di qualche colpo di mano da parte dei franchi­sti la flotta lascia il porto: non tornerà più a Cartagena.
Invece la rivolta della città abortisce nel volgere di po­che ore. I comunisti intima­no la resa ai rivoltosi e la ottengono. Il colonnello Al­mentia, ben sapendo di non potersi sottrarre alla fuci­lazione, si spara alla testa. Ma la fallita rivolta di Cartagena anziché scoraggiare i seguaci di Casado li esa­spera: nel contempo, poi­ché la flotta anziché ritornare in porto approda a Biserta e lì si ferma, dà ai comunisti e al governo la misura dei danni irrepara­bili che l'urto tra casadisti e governo può provocare. Ecco perché, da questo mo­mento in poi, comunisti e governo si comporteranno con estrema prudenza nei confronti dei ribelli, mirando più a lasciar esaurire la fiammata del « tradimen­to » che a soffocarla.

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È la notte tra il 5 e il 6 marzo quando, a meno di quarantotto ore dalla crisi di Cartagena, i partigiani di Casado, a Madrid, si riuni­scono nei sotterranei del Ministero delle Finanze. Il colpo di stato vero e pro­prio è imminente. Casado ha già costituito un « co­mitato di difesa » nel qua­le egli stesso rappresenta i militari. Del comitato, cui hanno aderito tutti i par­titi meno i comunisti, fa parte anche il leggendario generale Miaja. Prima dell'alba la settantesima briga­ta, comandata da un anar­chico, occupa i punti stra­tegici della capitale. Casado stila un appello che vie­ne immediatamente tra­smesso non solo a Madrid. Il proclama-appello invita gli spagnoli a riconoscere come unico legittimo go­verno della repubblica spa­gnola quello formato dalla maggior parte dell'esercito: cioè il proprio.
Programma di governo di quella che d'ora innanzi verrà chiamata « Junta Ca­sado » è, fondamentalmen­te, « una pace onorata ». Negrín viene accusato nel programma della Junta di « cercar di guadagnare tem­po in attesa di una cata­strofe di proporzioni uni­versali ». Casado tuttavia non assume la presidenza della Junta: preferisce affi­darla al prestigio del gene­rale Miaja.
Negrín mostra di non pre­occuparsi molto. Benché le forze controllate dal gover­no, cioè dai comunisti, sia­no tutt'altro che esigue, Negrín non risponde militar­mente. Si limita a rivolge­re un appello alla Junta in­vocandola di risparmiare alla Spagna una nuova guerra civile e di accettare un colloquio con gli espo­nenti del governo legitti­mo. Ma Casado, avendo sa­puto che nel frattempo Negrín ha fatto arrestare il ge­nerale Matallana, casadista, dà al presidente tre ore di tempo per farlo liberare: altrimenti tutti i membri del governo Negrín presen­ti a Madrid verranno pas­sati per le armi.
All'interno della capitale Negrín sa di poter disporre di forze comuniste abba­stanza vigorose. Sa che tali forze hanno già cominciato ad armarsi contro i ribelli. Ma invece di mettersi a ca­po di queste forze, Negrín, Del Vayo ed altri tra i prin­cipali capi comunisti par­tono in aereo per la Fran­cia. Di questa « fuga » gli storici futuri forniranno va­rie interpretazioni. Scartia­mo a priori quella delia vi­gliaccheria. E assai probabi­le che si sia trattato di una decisione volta ad evitare ulteriore spargimento di sangue. E un fatto che, di fronte al « pronunciamien­to » di tanta parte dell'esercito e alla decisione di tut­ti i partiti non comunisti di accettare il programma del­la Junta Casado, il governo legittimo non avrebbe avu­to più alcuna possibilità di continuare la guerra né di intavolare trattative di qual­siasi genere con Franco.
Tra i comunisti che in que­sti giorni abbandonano la Spagna c'è Dolores Ibarru­ri. E’ Stalin a chiedere che la Pasionaria trovi rifugio in Unione Sovietica prima ancora che la rivoluzione sia stata sconfitta. Con la partenza della Ibarruri e del generale Lister l'esilio dei rivoluzionari spagnoli ha ufficialmente la propria data d'inizio.
Il ritiro del governo, la fu­ga dei capi comunisti, non ottengono però lo scopo di risparmiare eccidi. Ben­ché, come tutti gli storici riconoscono, il partito co­munista ancora presente a Madrid nei suoi quadri as­suma da questo momento un atteggiamento di estre­ma moderazione nei con­fronti della Junta Casado (si tratta di una tattica politica che non esclude, ovviamen­te, azioni militari), la setti­mana successiva all'insedia­mento della junta dà luogo a un massacro. Non meno di duemila persone che per anni hanno combattuto fianco a fianco contro Fran­co ora si sterminano a vi­cenda. A Madrid i comuni­sti riescono, per poche ore, a conquistare il quartier ge­nerale della Junta: quasi tutti gli ufficiali casadisti vengono fucilati. Lo stesso accadrà agli ufficiali comu­nisti dopo che i casadisti avranno riconquistato il quartier generale.

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Sia i comunisti che i casa­disti non possono non rendersi conto che quest'ulti­mo, inutile sterminio av­vantaggia solo le truppe di Franco le quali d'ora in avanti non avranno neppure più occasione di combatte­re sul serio. Migliaia di mi­litari repubblicani lasciano il fronte antifranchista per combattere contro i comu­nisti o contro i casadisti. Nel fuoco,della polemica e dei combattimenti il PC e la Junta si rimproverano vi­cendevolmente l'ultimo tra­dimento nei confronti della repubblica e della demo­crazia. Ed è proprio per ciò che il PC a un certo punto propone a Casado qualcosa di più di una tregua: chie­de semplicemente a Casado di non compiere rap­presaglie anticomuniste, di prendere in considerazione l'ingresso di un comunista nella Junta e di continuare ad amministrare il potere. In proprio il PC continue­rà ancora per qualche set­timana, fino alla fine di marzo, a organizzare l'eso­do dalla Spagna dei propri quadri.
Ma quale mai potere può ormai conservare la junta? Se la repubblica era in ago­nia, ora è decerebrata. I franchisti hanno sfruttato fino in fondo la follia di quest'ultima fase della guerra civile. Sanno che il loro nemico, dilaniato dal­le fazioni, non è più in gra­do neppure di fingere una resistenza. Solo Casado sembra non rendersi conto di ciò e, smessa la lotta an­ticomunista (per decisione unilaterale del PC), tenta
Ingenuamente di concreta­re il proprio programma. Propone a Franco una « pa­ce onorevole » basata su otto punti. Tra questi otto punti ci sono le richieste di « un periodo di grazia di 25 giorni per chiunque vuol lasciare liberamente la Spagna », « rispetto di tutti i combattenti i cui motivi di lotta sono stati sinceri e onorevoli », « rispetto del­la vita, della libertà e della carriera per i militari di professione », « idem per i funzionari ».
Franco non accetta nem­meno di discutere. Esige la capitolazione. Per umiliare la Junta, da lui comunque ritenuta espressione della repubblica, Franco incarica un subalterno di Casado di intimare la resa della re­pubblica allo stesso Casa­do. Per ulteriori trattative (ma il termine trattative è inesatto) Franco rifiuta di parlare a militari d'alto gra­do come Casado o Matal- lana: vuole che i suoi emis­sari abbiano a che fare con ufficiali di grado seconda­rio. Pur avendo ottenuto tutto ciò Franco respinge gli emissari di Casado con questo semplice e brutale ordine: « Il 25 marzo deve arrendersi l'aviazione, li 27 marzo tutto il resto dell'esercito ».
Arriva anche il momento degli anarchici. Adesso so­no loro, ma per poche ore, a chiedere la resistenza fi­no all'ultimo uomo. Ades­so sono loro a doversi op­porre a quanto rimane di un esercito che vuole ar­rendersi ad ogni costo. Ci riescono per 48 ore. L'avia­zione si arrende il 27 mar­zo. E il resto dell'esercito? Casado chiede ancora a Franco di trattare, di stabi­lire una qualche modalità che salvi almeno una par­venza di dignità. La rispo­sta di Franco è, in sintesi, questa: « Noi attaccheremo comunque Madrid. Se vo­lete salvare vite umane ordinate ai vostri uomini di alzare bandiera bianca ai primi segni dell'attacco ». Ora tocca alla Junta, come giorni prima al PC, orga­nizzare l'evacuazione dei profughi. Le ultime ore del­la repubblica di Spagna trascorrono penosamente così: nel vano tentativo di recuperare i contratti di trasporto via mare che al­cuni stati europei avevano concordato con il governo Negrín. Ma il governo Negrín benché sconfitto era un governo legittimo; la Junta è sotto tutti gli aspet­ti l'ultimo sussulto di uno stato che di fatto non esi­ste più. Nessun contratto viene quindi onorato. Anche se pochi storici lo sot­tolineano, l'atteggiamento delle democrazie occiden­tali in questi ultimi giorni del marzo 1939 moralmen­te annulla il contributo che esse diedero al lungo ten­tativo di libertà della Spa­gna repubblicana e prelude - è altrettanto certo - a quel comportamento « neutro » mantenuto nei decenni futuri nei confronti della dit­tatura di Franco.
La notte del 27 marzo la Junta lascia Madrid al suo destino e parte in volo per Valenza. Da Valenza tutti i membri si disperderanno in varie zone d'Europa. Una nave da guerra inglese si porta via Casado.
A Madrid la quinta colonna franchista organizza una di­mostrazione di festa. I gio­vani dei quartieri alti sfila­no con fiaccole e con la camicia azzurra. I franchi­sti entrano in città inqua­drati. Moriranno altre mi­gliaia di repubblicani e di libertari nei giorni e negli anni successivi, ma nessu­no, in Spagna, mostrerà di accorgersene. La più san­guinosa guerra civile della storia contemporanea fini­sce così: con una parata applaudita da pochi tradi­tori e da un popolo sfinito.
I « paesi ospiti », le demo­crazie occidentali, prepara­no i campi di raccolta per i profughi. Come sempre ac­cade quando un popolo è sconfitto, i « campi di rac­colta profughi » sono cir­condati da filo spinato.


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un gruppo di prigionieri baschi condotti alla fucilazione

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una folla di esuli spagnoli attraversa la frontiera francese sui Pirenei. In un primo tempo la Francia consentì il transito solo ai civili e ai feriti. Poi, il 5 febbraio 1939, il governo decise di accogliere anche i militari. In cinque giorni varcarono i confini 250.000 combattenti


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