Eravamo seduti in
cerchio (come al solito) quando si passa il tempo alla fine della giornata, con la pipa in mano e la mente incantata dal racconto di
Mario che quella sera era con noi...
Mio
nonno Epifanio Chiaramonti
Ci sono persone che
vorresti riportare in vita. Non solo per goderne
l’affetto ma anche per poter fare quelle
domande che ti sono rimaste dentro. Mio nonno è
morto da 40 anni, ormai, e mi resta il rimpianto
di non essermi fatto raccontare da lui tanti
episodi della sua vita che mi avrebbero aiutato
a conoscerlo meglio e, in fondo, forse, a
conoscere meglio anche me stesso, visto che, di
riffa o di raffa, una
parte del suo dna si è trasferito nel
mio.
Mio nonno, siciliano di
Agrigento di stirpe normanna (era alto e biondo
con gli occhi azzurri) aveva un nome certamente
difficile da portare e inusuale: Epifanio (ma
sua moglie e i suoi fratelli lo chiamavano
Lillo). Il cognome: Chiaramonti. Professione:
soldato.
Una delle storie che vorrei
farmi raccontare da lui riguarda la sua
partecipazione alla seconda guerra mondiale sul
fronte russo. Era colonnello, allora.
Nonno comandava l’80°
fanteria, una specie di battaglione d’assalto
che aveva preso il suo nome: “Colonna
Chiaramonti”. Era sempre in prima linea con i
suoi uomini. In realtà non ne parlava spesso e
molte cose sono venuto a saperle dopo, da mia
madre. Così non sono in grado, purtroppo, di
citare con precisione né luoghi né date.
Ricordo che una volta mi raccontò che aveva
sparato contro una colonna tedesca… e i
tedeschi erano nostri alleati!
“Avevamo fatto una fatica
tremenda a conquistare un’altura difesa
dall’Armata Rossa – spiegò – e poi, alla
fine della battaglia vidi sopraggiungere una
colonna tedesca preceduta da alcuni
motociclisti. Dall’altura dove ci trovavamo
diedi ordine di effettuare un fuoco di
sbarramento con le mitragliatrici per fermarli.
E così accadde. Sparammo e loro si fermarono.
Noi italiani eravamo male equipaggiati, con le
scarpe che facevano acqua, il nostro rancio era
povero… i tedeschi erano ben attrezzati e ben
nutriti, non mi era sembrato giusto che si
facessero vedere solo dopo che la battaglia era
finita! Il giorno dopo il comandante tedesco mi
raggiunse e disse: ‘Colonnello, complimenti
per l’azione di ieri! Lei e i suoi uomini
siete stati degli eroi! Ma nella foga della
battaglia vi siete sbagliati e avete sparato
anche contro di noi…’. Gli risposi:
‘Nessun errore, sono stato io a dare
l’ordine…’”.
Il colonnello tedesco non batté
ciglio, a quanto pare; comunque, il nonno fu
insignito, per le sue azioni in Russia della
croce di ferro tedesca.
Ma l’episodio che non mi
stancherei mai di farmi raccontare riguarda il
momento in cui si trovò accerchiato dai Russi,
in una cittadella, isolato dal resto delle
truppe italiane.
Di notte, con i suoi uomini
riuscì ad attraversare le linee nemiche. Ma una
volta passatele, nonno disse ai suoi ufficiali e
ai suoi uomini che loro potevano proseguire per
ricongiungersi con il nostro esercito, lui
sarebbe tornato indietro perché si era
dimenticato di rendere gli onori ai caduti. Non
tornò indietro da solo: lo seguirono tutti.
Riattraversarono le linee
nemiche, resero gli onori ai caduti dell’80°,
riattraversarono le linee e si ricongiunsero
finalmente alle truppe italiane. Erano eroi, gli
uomini di mio nonno.
Nel suo studio, a Milano,
aveva dietro la scrivania un quadro che
rappresentava uno dei suoi soldati, un
siciliano, Rosario Randazzo. Rosario era un
mitragliere; la sua postazione fu colpita da una
granata e il suo compagno rimase ucciso. A lui
l’esplosione di quella granata aveva portato
via un braccio. Ma così ferito, il giovane
siciliano continuò a sparare. Con la mano
rimasta puntava la mitragliatrice; il bottone di
sparo lo schiacciava con i denti. Li ritrovarono
quei denti, accanto al corpo, nella neve, dopo
che fu ucciso da un’altra granata. Rosario
Randazzo, giovane siciliano, medaglia d’oro al
valor militare.
A Mantova, da dove erano
partiti in tanti tra i componenti la “Colonna
Chiaramonti” hanno inaugurato, parecchi anni
fa, in piazza 80° fanteria un monumento che
ricorda le gesta di quei soldati. Alla scoperta
del monumento ero accanto a mio nonno, in
tribuna. E sotto c’erano alcuni reduci. Non
dimenticherò mai le loro voci: “Il nostro
colonnello, il nostro colonnello!”. Tendevano
le braccia verso di lui per stringergli la mano
e avevano il tono di figli orgogliosi. Ed ero
orgoglioso anch’io nel vedere quanto fosse
amato il nonno.
Era un uomo tutto d’un
pezzo. In Russia fu ferito ad un occhio e
dovette tornare in Italia, dove gli diedero il
comando della Scuola Ufficiali di Milano che era
sfollata a Cremona. Milano era soggetta a
continui bombardamenti, sulla città di
Stradivari non piovevano bombe.
L’8 settembre del ’43
la scuola era ancora chiusa, non erano iniziate
le lezioni. A difenderla c’erano mio nonno e
pochi ufficiali, più qualche civile che aveva
funzione di bidello. I tedeschi attaccarono la
scuola, erano scortati da un carro armato. Nonno
diede ordine di difendersi e sparare. Era il suo
dovere. Il panzer sfondò il portone. Un tenente
tedesco mise gli ufficiali al muro per fucilarli
(i tedeschi consideravano i soldati italiani che
sparavano contro di loro non prigionieri di
guerra ma disertori e cecchini e come tali
andavano fucilati immediatamente), poi si
rivolse a mio nonno dicendogli che contro di lui
non poteva sparare perché aveva la croce di
ferro: “Non posso fucilare un soldato che ha
una decorazione del mio Paese”, spiegò. Il
nonno ribatté che se non fucilava lui, non
avrebbe dovuto fucilare neppure gli altri. La
discussione si protrasse a lungo con nonno che
diceva che o fucilava tutti, lui compreso, o non
fucilava nessuno. Mai mettersi a discutere con
un testardo come lui! Quell’ufficiale tedesco
si arrese (!) e i difensori della Scuola
finirono in campo di concentramento, in Polonia
prima, a Chestokowa, e poi in Germania.
Era riuscito, anche allora,
a salvare la pelle ai suoi uomini.
Mario
Palumbo
Memoria
R.D. 2/4/1943 registrato alla corte dei conti
l’11/5/1943 reg. 17 foglio 56
“Comandante di
plotone, volontario in numerose ardite azioni di
pattuglia, dava in ogni contingenza costante
prova di coraggio e di spirito aggressivo. Nell’attacco
a munite posizioni, dopo aver trascinato
ripetutamente all’assalto il reparto,
accortosi che un grosso nucleo nemico minacciava
seriamente il fianco del suo battaglione,
balzava con indomito slancio sull’avversario
e, dopo accanita lotta, lo travolgeva,
obbligandolo a ripiegare. Ferito gravemente
rifiutava di lasciare il posto di combattimento
e, dominando con animo virile lo spasimo dell’agonia,
impartiva gli ordini per il proseguimento dell’azione,
finché trasportato esanime al posto di
medicazione, si spegneva, rivolgendo un supremo
pensiero ai suoi bersaglieri ed alla Patria”
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