Giacomo
Salvagno, detto Giacu, ci pensava da anni. Era
sempre più infastidito dai cretini, dai
divieti, dai regolamenti, dalle leggi sceme, i
cui effetti malvagi, fastidiosi e liberticidi
riuscivano anche ad arrivare in mezzo alle
montagne.
Un
bel giorno, sentendo in basso il rumore di un
motore - il fuoristrada di un cercatore di
funghi o di un ladro di castagne - si decise.
E’ fondò ufficialmente la sua repubblica. Il
nome ce l’aveva già in testa: Repubblica del
Burich; territorio appunto quello del vallone
del Gias del Burich. Confine a valle, dove
finiva l’asfalto e iniziava il sentiero,
confini a monte i crinali che spartivano i
boschi dalle combe del Rio Ciabraressa e dell’Angiolina,
che si riunivano sui torrioni invalicabili della
Rocca della Paur.
Non
che avesse sete di potere, Giaco, per carità;
potere alla fine non ce n’ha nessuno - pensava
- se quando è ora si finisce tutti nello stesso
posto con gli occhi chiusi e la testa vuota di
pensieri per sempre. Non per potere dunque, ma
per stare in pace e non dover ubbidire a uno che
non aveva mai visto prima, sottostare a
scritture che non aveva concorso a redigere, a
imposizioni forestiere che gli facevano venire
il sangue alla testa. Insomma voleva solo essere
libero. Libero di stare per i fatti suoi, senza
chiedere niente a nessuno.
Giaco
abitava nelle grange di Pradamount da sempre.
Case povere, essenziali, tutte di pietra, con i
ciardun - i grossi cardi secchi - inchiodati
sotto le travi del tetto, unico ornamento,
insieme bello ed economico. E prima ci stava suo
padre e prima ancora suo nonno e via, da secoli,
tutti pastori e contadini. E non ne poteva più
di esattori, guardiacaccia, forestieri ben
vestiti e delle bollette. E che una volta che
stava piantando quattro pali per fare una
tettoia per il fieno, era venuto il messo a dire
che ci voleva il permesso del comune e bisognava
anche pagare. Ma questa è casa mia, disse, e se
non faccio danni a nessuno non mi dovete stare a
turlupinare con i vostri regolamenti balordi.
Cercò anche di spiegare al messo il suo punto
di vista. «La questione è che la legge e la
giustizia ormai sono due cose diverse. Prendi
per esempio una forma di legno quadrata, come
fosse la cornice di un quadro: se vuoi farci
entrare per forza una roba più grande e
rotonda, non so, per esempio una zucca, se la
sforzi alla fine entra anche, ma la zucca la
sfracelli mezza. Ecco. Hai applicato la legge,
ma non hai mica fatto un’atto di giustizia.
Hai capito, ciula di una guardia?
E
così fece la repubblica. Capitale Pradamount.
Forma di governo: nessuna. Prima roba la carta
moneta. La chiamò «Tiroberliro» - il nome
veniva da una storia che conosceva solo lui - e
ne disegnò degli esemplari d’inverno che
c’era poco lavoro. Con penna e calamaio, sui
fogli di un vecchio quaderno a righe, fece delle
belle banconote con gli svolazzi, e la sua
firma, poi anche i francobolli, senza
dentellatura perchè a farli a mano con le
forbici i denti facevano perdere troppo tempo. E
poi ne fece pochi perchè tanto non scriveva mai
a nessuno. Non studiò nessuna bandiera, perchè
con la scusa del drapeau, aveva visto che
c’era solo da morire e fare battaglie.
Le
monete metalliche le coniò martellando delle
rondelle sull’incudine, punzonandole poi con
la sagoma della vacca Sarvaja. Poi fece la
statistica degli abitanti: Salvagno Giacomo,
detto Giaco, poi appunto la vacca Sarvaja, due
galline americane senza nome e un galletto, la
capra Ortica e il cane Moretto. Poi decise
l’assetto dello Stato: tasse, niente, polizia,
niente, marina mercantile, neanche a parlarne,
esercito? Mah, poi vediamo perché ci sono
troppi farabutti che delle volte te le tirano
dalle mani. Il capo del governo lo faccio io e
siamo a posto. E faccio anche il ministro
dell’agricoltura, così se voglio comprarmi
anche un mulo e seminare il doppio delle patate
va tutto bene. Giudici, niente, ricevute,
niente, finanzieri, niente. Bene.
Come
primo provvedimento Giaco mise una barra di
castagno all’imbocco del sentiero, la sua
bella scritta Alt e un cippo di pietra. Per un
po’ nella valle nessuno ci fece caso perché
Salvagno lo consideravano tutti un po’ tocco,
scorbutico e solitario. Ma una volta venne su di
nuovo il messo comunale che voleva consegnare la
cartella delle imposte e Giaco gli comunicò la
novità della Repubblica invitandolo a non
passare la frontiera se non voleva essere
accusato di invasione. Il messo tornò lesto in
paese e riferì al sindaco, il quale denunciò
il fatto ai carabinieri.
E
una bella volta un militare in divisa, con la
bandoliera e le bande rosse ai calzoni, salì a
Pradamount a controllare quella fanfaronata
della repubblica. E non volle sentir ragioni: la
faccenda era illegale, bisognava togliere la
barra e consentire il libero accesso al vallone,
e la secessione era una storia, e Giaco si
facesse furbo se non voleva che arrivassero gli
elicotteri, e se era d’inverno gli alpini
sciatori. Ma Giaco aveva letto dei libri sulla
libertà, e di altri che vivevano in pace nei
boschi, anche in America, e siccome aveva fatto
anche il partigiano ai suoi tempi, ricominciò
un’altra volta la resistenza. Questa volta da
solo.
Diede
il largo alle bestie che si arrangiassero un
po’ per loro conto, e prese soltanto il cane.
La notte fece su lo zaino con poche cose, e
s’incamminò verso l’alto, verso il colle di
Malaura, dove c’erano vecchie grange
disabitate circondate da ontani verdi, ortiche e
rabarbari selvatici. Cominciò una vita alla
macchia nelle zone più ispide e scomode della
«sua» repubblica. Col vecchio ’91, che
prudentemente non aveva versato alla fine della
guerra, ogni tanto tirava a un cinghiale, faceva
seccare la carne e aveva una provvista per mesi.
Cuoceva gli spinaci selvatici e magari due
funghi sulla pietra, di notte, per non far
vedere il fumo, e faceva anche infusi di genepy,
genziana, timo. D’estate mangiava more,
lamponi, mirtilli. D’autunno c’erano le
castagne, e pere e mele ormai selvatiche vicino
alle grange abbandonate.
Gli
scarponi già sformati per conto loro, si
scalcagnavano sempre di più; i calzoni di
velluto maron avevano borse paurose sotto i
ginocchi e macchie, toppe. Il cappello a forza
di piova e neve era sbilenco, e lo zaino - lo
stesso della naja lontana - odorava di erba e
pane, e tela bagnata. Ma sotto il cappello la
testa era leggera e i pensieri in ordine. Giaco
era libero e lontano dalle melme della pianura,
piene di piciu’ d nata col cervello camolato
come la vecchia gamba di un tavolo, lontano
dagli orologi, dalle asfaltature. Da ogni
obbligo e vincolo.
Si
procurava qualche toma e burro di contrabbando
dai margari degli alpeggi «all’estero», cioè
quelli che confinavano con lo Stato del Burich,
e siccome i margari sono nomadi e anarchici di
natura, aiutavano volentieri il fratello
braccato, e se qualcuno chiedeva dicevano:
Giaco? Mai più visto. Qui abbiamo da guardare
le vacche e fare le tome, e la sera siamo morti
dal sonno, e al mattino siamo fuori appena fa
giorno. Non è che stiamo a guardare quelli che
passano.
Ma
Giaco non superò l’inverno. A Natale era alle
lontanissime miande di Balmo Cianto, che erano
già diroccate ai tempi del re, e fece la sua
veglia solitaria col cane Moretto accucciato nel
fieno muffito, vicino a un fuoco di rami di
larice. Fra le travi del tetto di lose mezze
crepate, si sentivano i ghiri fare un po’ di
cernaia. Fuori nevicava adagio, e quasi sentivi
i fiocchi cadere uno sull’altro. Giaco si era
fatto una polenta con la farina che gli aveva
portato di nascosto un vecchio compagno di
quando erano in una banda GL, scolando anche una
bottiglia di barbera, anche quella un regalo per
le feste.
Gennaio,
febbraio, marzo. Fu una stagione fredda e piena
di neve, con bufere e tormente. Lo trovarono dei
boscaioli, a Pasqua, con il cappello in testa,
seduto su un roccione a picco sulla la valle.
Secco e duro come un tronco. Coperto di
galaverna perchè era mattina presto. In tasca
qualche moneta con la sagoma della vacca Sarvaja,
accanto il fucile senza più cartucce, il cane
che guaiva, tutto pelle e ossa, e che faceva una
guardia ormai inutile.
Renato
Scagliola
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