ARMATI DAL VENTO

dove pochi pastori grandi cavalieri dimostrano di poter conquistare il mondo, si accorgono di non averne bisogno e tornano nella steppa…

sarebbe bello che fosse andata così, invece alla morte del più grande degli imperatori, anche loro si sono fatti catturare dalla sete di potere e le lotte intestine hanno fatto crollare tutto il castello con lo stesso impeto che lo aveva costruito

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I nemici ai confini dell’Impero temono i Mongoli come l’Inondazione e l’Uragano.

Non è detto che arrivino ma può sempre succedere.

Allora tremano:

si trovano avvolti da potenti ondate di cavalleria e arcieri a cavallo che vanno a coprire affiancati decine di chilometri all’intorno e gli si stringono addosso

sempre in movimento in velocità

sempre all’attacco con precisione.

 

Grandi sono i mongoli ma piccoli i loro cavalli, così che nell’erba di fine inverno un cavaliere al galoppo può comparire solo all’ultimo istante, se desidera sorprendere.

 

Le tribù nomadi sono sempre state impegnate a combattere tra di loro per ottenere i pascoli migliori o privilegi apparentemente senza significato per le popolazioni stanziali.

Capitava che uscissero dai loro confini per razziare le civiltà agricole circostanti e quando accadeva devastavano ogni cosa portando via tutto quello che per loro era prezioso: armi, armature e strumenti in metallo che non erano in grado di produrre data la loro esistenza nomade.

Arrivavano dal nulla e svanivano nel nulla.

Per un pastore a cavallo un contadino che passa la sua giornata sotto il sole a togliere erbacce vale molto meno di un cavallo.

Per un contadino è impossibile avere relazioni degne di tal nome con gente che migra di qua e di là come fanno gli uccelli.

Disprezzo reciproco.

Distanza sufficiente a ignorarsi a vicenda e seguire la propria strada.

 

Deluun Boldog,

sembra sia il 16 aprile 1162

si sa che è il giorno chiaro del primo mese dell'estate dell'anno del cavallo d'acqua del terzo ciclo,

nasce un bambino che stringe nel pugno un piccolo grumo di sangue.

 è il segno che il suo destino sarà quello di un grande guerriero

Temüjin diventa il suo nome

noto alla storia come Gengis Khan, il più grande degli imperatori

quello che si copre con le stesse vesti e si nutre dello stesso cibo dei mandriani e riunisce i clan di pastori nomadi delle steppe verso un unico obiettivo: la conquista del mondo

 

la notte di metà aprile può ancora coprire il mondo con un silenzioso strato di neve ma ormai l’aria è leggera e in poche ore torna brullo in attesa della prossima primavera

 

Finché le tribù mongole erano impegnate a guerreggiare tra loro sia per inclinazione che istigati dall’imperatore della Cina che seminava zizzania per proteggere i suoi confini, nessun’altro ne aveva mai sentito parlare.

Nel maggio del 1206 tutti i clan delle tribù nomadi si radunano alle sorgenti dell’Onon alzano uno stendardo bianco a nove code e proclamano Temüjin Khan supremo, Gengis Khan.

Per mantenere la pace all’interno e condurre la guerra all’esterno viene costituito lo Yasa il codice di leggi grazie al quale i più feroci tra gli uomini diventano giusti e moderati nei rapporti reciproci.

I Clan sono uniti ma sono guerrieri e il nuovo imperatore anche.

Sentendo questa potenza pulsare sotto di lui, guarda oltre i confini, in ogni direzione.

 

Organizzazione dell’esercito e disciplina

La società e l’esercito, di impostazione tradizionalmente tribale, vengono rimescolati per dare alla nazione un nuovo volto e rimuovere le antiche tensioni.

L’organizzazione militare viene completamente trasformata e le unità operative storiche di dieci, cento e mille uomini dello stesso clan assumono carattere intertribale e vengono ulteriormente accorpate in tumen, la formazione campale di diecimila uomini che storicamente avevano sempre combattuto tra loro. L’unità base è l’arban, composto da dieci uomini moltiplicati e coordinati al punto che quando un tumen è riunito si muove come se fosse un unico organismo guidato da un solo pensiero. Ciascun ufficiale o soldato è responsabile, pena la morte, della sicurezza e dell’onore dei compagni.

L’avanzamento da posizioni anche basse ai più alti livelli è possibile per chi mostra coraggio e doti di comando grazie all’impostazione meritocratica di questo esercito.

Al comando di divisioni così numerose vengono scelti uomini presi indifferentemente da tutte le tribù che fanno diretto riferimento al Khan tramite un rapido ed efficiente sistema postale basato su corni, segnali di fumo, bandiere e staffette a cavallo.

Orlok è il nome che designa la loro carica e significa aquila.

Questo sistema permette un monitoraggio accurato delle capacità di ogni singolo soldato e i migliori vengono scelti per entrare nel Keshig, la guardia imperiale. Questo gruppo selezionato può risolvere anche gli scontri più difficili con le sue cariche impetuose e in caso di vittoria gode di larga parte del bottino e delle donne.

 

 

Un sistema di vita che rimane immutato attraverso così tanti secoli può sembrare ad un primo sguardo selvaggio e retrogrado.

Pochi sapevano scrivere, ma tutti sapevano cantare.

Il Progresso e l’Istruzione avanzano con nobili obiettivi spazzando via tutte quelle sofisticate astuzie apprese da quando l’uomo ha camminato nel Gobi

In un mondo “climatizzato” non servono più.

 

Tutto comincia dal cavallo.

Pare che la sua domesticazione sia avvenuta nella Russia meridionale durante il secondo millennio avanti Cristo da allora la sua straordinaria velocità e resistenza sono sempre state al servizio dei nomadi delle steppe.

Ispirandosi probabilmente ai cinesi, i Mongoli prendono a far uso di staffe, con le quali possono cavalcare con il minimo impegno delle mani potendo scagliare frecce o servirsi del laccio anche al galoppo.

 

arciere a cavallo, si noti la libertà di azione del cavaliere dovuta all’uso delle staffe, all’equipaggiamento leggero e all’arco corto

 

Adesso come allora i mongoli sono duri e resistenti a privazioni ed avversità. Là dove non sono ancora stati troppo addomesticati dallo “sbaluccicare” di una società senza coraggio. Hanno alle spalle le aspre steppe e fin dall'infanzia trascorrono ore ed ore in sella.

I loro cavalli sono esseri duri quanto loro: schivi tenaci schietti e generosi, vengono comunque curati col riguardo che gli spetta.

Più resistenti di altri cavalli permettono una mobilità sconosciuta a tutti gli avversari che vengono disorientati da questa rapidità.

Durante gli spostamenti, ogni guerriero ha almeno quattro cavalli che monta a rotazione in modo da aumentare la velocità media di marcia. Messo alle strette arriva a salassare un cavallo scelto all'occorrenza per riprendere forza con il sangue estratto, se le circostanze lo richiedono è pronto a disfarsene o a macellarlo senza esitare, non per mancanza di sentimento ma perché sa che l’animale da lui sacrificato vivrà in lui e che la sua forza non è legata alla sua forma.

 

Armi ed equipaggiamento

I Mongoli sono soprattutto arcieri a cavallo, ma non mancano unità di cavalleria più pesante e adatta al combattimento corpo a corpo, comunque molto più mobile di quella occidentale.

Ogni soldato è responsabile del proprio equipaggiamento. L’abbigliamento dei soldati mongoli non differisce da quello di altri nomadi: una tunica blu o marrone detta kalat fatta di cotone d’estate e di pelliccia in inverno e degli stivali in pelle con fodera in feltro. A contatto con la pelle indossano una camicia di seta e sulla tunica, i guerrieri della cavalleria pesante, portano una cotta di maglia metallica e una corazza di cuoio ricoperta da scaglie di ferro.

Il capo è protetto da un cappello di feltro e pelle dotato di due lembi laterali per coprire le orecchie nei rigidi mesi invernali. In battaglia è sostituito da un elmo di pelle e più tardi di ferro. La cavalleria pesante porta uno scudo di vimini ricoperto di cuoio. Tutti sono armati di due archi e una grossa faretra, contenente non meno di sessanta frecce.

La cavalleria leggera porta una spada corta e due o tre giavellotti, mentre quella pesante è armata di una scimitarra, un’ascia da combattimento o una mazza e una lancia di quattro metri dotata di un arpione all’estremità per poter disarcionare l’avversario. I soldati mongoli portano con sé anche l’equipaggiamento da viaggio: vestiario, pentolame, carne essiccata, una bottiglia d’acqua, lime per aguzzare le frecce, ago e filo e altri piccoli oggetti di prima necessità. La bisaccia di solito è ricavata da uno stomaco di vacca che, essendo gonfiabile e stagno, si trasforma in un valido galleggiante durante l’attraversamento dei fiumi.

  

  

parti dell’equipaggiamento si tramandano da generazioni, altre sono personali e ogni cavaliere o sua moglie è in grado di confezionarli, altre si comprano al mercato. Le bancarelle di selleria, contrariamente a quelle a cui siamo abituati qui, espongono solo oggetti che per un cavaliere sono davvero utili.

 

Tutti i nomadi delle steppe sono sempre stati cacciatori eccezionali. La loro arma principale è l’arco “retroflesso” di legno corno e nerbo uniti con seta resina e, pare, colla di pesce sono per lo più di fabbricazione casalinga quindi molto eterogenei. È piegato in senso contrario alla sua curvatura naturale generando una tensione fortissima. Piegare un arco simile richiede una buona forza ma può scagliare la freccia quasi a 300 metri di distanza. Ha una dimensione ridotta che lo rende adatto all'uso a cavallo a causa dello spazio e del tempo limitato necessario per tenderlo. Ogni cavaliere è tenuto ad avere due archi, alcuni ne portano di più ed erano di proprietà di ogni singolo arciere, non venivano assegnati d’ordinanza perché strumenti troppo personali.

 

in tutta la Mongolia sono rimasti pochi artigiani in grado di montare un arco in maniera tradizionale.

 

Le frecce differiscono a seconda dello scopo tattico: ci sono “testate” in grado di perforare pesanti corazze, frecce in grado di percorrere distanze maggiori o per impiego speciale, come quelle incendiarie.

 

Non ci sono fanti mongoli, come fanteria veniva impiegata quella delle popolazioni sedentarie mano a mano che venivano conquistate. In genere veniva mandata avanti in massa contro posizioni fortificate oppure per compiti di presidio e sorveglianza delle salmerie.

 

Addestramento

Il servizio militare è obbligatorio per tutta la popolazione maschile al di sopra dei quattordici anni, ciascuno porta con sé quattro o cinque cavalli e almeno due archi.

Quando questi uomini raggiungono le loro unità di servizio sono già esperti arcieri e cavalieri per loro costume tradizionale. Durante l’inverno vengono addestrati al lavoro di gruppo tramite battute di caccia a cui partecipano tutti i soldati adottando diverse tecniche a seconda delle dimensioni dell’unità coinvolta.

 

in addestramento l’equipaggiamento deve essere operativo, si noti questo cacciatore con la kalat blu con il braccio fuori dalla manica, gli stivali, la faretra piena di frecce, due prede che già pendono dalla cintura alla sua destra e l’arco teso alla sua sinistra. Il cavallo è in forma e coraggioso, non teme l’odore del selvatico e del morto.

 

Logistica

Al seguito di ogni guerriero ci sono moglie e figli che, quando l’esercito si trova all’estero, lo seguono portando con sé le greggi, quindi la popolazione è completamente coinvolta nelle campagne, anche perché il servizio dura fino ai sessant’anni. Il seguito di famiglie e bestiame dà un  notevole supporto logistico ma rallenta molto gli spostamenti anche se avvengono preferibilmente in gruppi di pochi uomini per nascondersi all’obiettivo e avere pascolo sufficiente.

Inoltre per sostenere così tante persone i Mongoli sfruttano le risorse delle popolazioni presenti nei territori attraversati.

Raramente gli assedi durano a lungo anche perché la prolungata permanenza di un numero così elevato di animali nello stesso luogo porterebbe a estinguere il foraggio per un’area circostante troppo vasta con notevole dispendio di energie.

Se le circostanze lo richiedono, al seguito dei cavalieri ci sono anche dei convogli di rifornimento che portano l’equipaggiamento più pesante anche se la maggior parte del materiale necessario a costruire grandi macchine da assedio venisse reperito sul posto.

L’autosufficienza è legata al costante movimento che solo un popolo nomade è in grado di sostenere e questa necessità dà un’ulteriore spinta a non fermarsi di fronte a nulla.

 

Mobilità e sincronizzazione

Puntando su un sistema di rapida comunicazione degli ordini e lasciando ai singoli comandanti la necessaria autonomia per prendere le decisioni al momento giusto Gengis Khan ottiene un’organizzazione talmente puntuale e flessibile da diventare inarrestabile.

Nella caccia apprendono l’arte di concentrare il potere offensivo nel tempo e nello spazio e la applicano alla guerra.

Le unità vengono spesso accorpate o suddivise, a seconda delle necessità. Le forze disponibili vengono distribuite con elasticità nella maniera più vantaggiosa senza che si disperdano in operazioni inutili e dispendiose. Sono sincronizzate con piani precisi che stabiliscono in anticipo le mosse future in modo da sapere sempre dove si trovavano gli altri anche a distanza di centinaia di chilometri. Il piano funziona se è semplice e, per quanto grande, l’armata mongola è organizzata secondo schemi tattici ripetitivi e adattabili ad ogni situazione a seconda delle circostanze contingenti.

Fingono di ritirarsi per trarre in inganno gli inseguitori e, senza tregua pungolano ed assalgono di sorpresa il nemico con trabocchetti e imboscate.

Nascondere all’avversario le proprie intenzioni e forze e impiegare esploratori e spie per raccogliere informazioni è indispensabile per la sicurezza e la sorpresa. L’armata mongola concede raramente l’iniziativa tattica e strategica all’avversario che è costretto a reagire senza speranza e in condizioni di estremo svantaggio dopo che tempo, luogo, forza, tipo e direttrice d’attacco sono già imposti.

 

Non solo di guerra si tratta se in pochi attimi così tanti uomini imparano a muoversi all’unisono scoprendo nel bene di tutti il proprio.

 

Sparpagliati e invisibili nella fase di avvicinamento all’obiettivo, si compattano per combattere solo nel momento e sul luogo decisivi.

Le unità si avvicinano in colonne distanziate per agevolare la logistica e guadagnare spazio di manovra. Isolato il bersaglio i tumen vengono schierati e convergono sul nemico da tutte le direzioni possibili inizialmente distanziati, poi sempre più compatti. Avanzando sull’avversario lo tempestano di frecce.

Sul campo il comandante guida la battaglia con speciali bandiere da una posizione elevata. Gli ordini vengono eseguiti immediatamente con una simultaneità spaventosa e micidiale ottenibile solo grazie all’attenzione e alla disciplina.

Per i mongoli forza fisica, coraggio e senso dell’onore sono qualità talmente normali da non poter risaltare come talenti e l’autorevolezza dei comandanti è dovuta al rispetto dei soldati per la loro intelligenza e abilità al comando. Forse proprio il rispetto dovuto ai meriti e non alle origini dei loro comandanti ha mantenuto la disciplina e la compattezza di questo esercito di origine anarcoide in luoghi così lontani dal governo centrale.

 

Quando il territorio non è favorevole ingannano il nemico fino a indurlo a battersi contro di loro in terreno aperto.

Le fortificazioni nemiche sono l’ostacolo meno consono alla tattica dei mongoli che, in caso di assedio devono appoggiarsi a tecniche di offesa che non fanno parte della loro tradizione. Tra le loro fila si avvalgono di conoscenze tecniche straniere strappate a prigionieri o mercenari di paesi conquistati.

Usano ogni mezzo per raggiungere il loro scopo, dallo scavo di gallerie all’aiuto proveniente da traditori e, conquistata la Cina, ottengono tecniche di attacco molto avanzate come la polvere da sparo che seminano sorpresa e terrore in chi non li ha mai visti, oltre al loro effettivo potere distruttivo.

Le città conquistate subiscono massacri e saccheggi senza pietà. Quelle che si arrendono in tempo si risparmia il peggio, ma deve comunque pagare la salvezza con tutte le sue ricchezze e lasciando partire verso Karakorum, la capitale dell’Impero, tutti quei professionisti e artisti che possono far comodo all’Imperatore.

 La Paura precede il loro avanzare, i fuggiaschi raccontano ogni sorta di diavolerie ad opera di questi invasori e in realtà per assicurarsi la conquista i Mongoli sono capaci di devastare intere regioni sterminandone la popolazione.

Arrivano, conquistano, prendono ciò che gli interessa e distruggono ciò che può intralciargli il cammino.

Qualcuno riesce a sfuggire a questa furia ma spesso, dopo il loro passaggio, resta solo il Vento a mormorare sulle macerie e le carcasse.

 

Semplicità e grandiosità

 

Forse, se avessero conquistato l’Europa, quel giorno di metà aprile al mercato di Moron non ci sarebbe stato nessuno a fumarsi una sigaretta con noi sul carro dopo un bicchiere di latte, invece c’erano loro e tutti si godevano quel bel sole e aspettavano la primavera.

 

Di ritorno dalle campagne vittoriose i banchetti sono di pecora arrosto e latte di giovenca e in omaggio per i commensali giungono carri carichi d’argento e d’oro.

Finché i Mongoli combattono solo perché sono guerrieri, quest’organizzazione funziona.

Quando la vittoria diventa consuetudine, si corre il rischio di essere contaminati dal desiderio di potere per il potere.

Gengis Khan temeva quel momento e prima di morire cercò di lasciare le direttive perché il cuore dei suoi uomini rimanesse d’acciaio.

Ma un impero è pur sempre un impero

Più è mastodontico e più è schiavo.

E il potere è più insidioso della ruggine,

dove l’Uomo cammina e pensa

Trova sempre una fessura dove infilarsi e rendere meschini.

 

Paola Giacomini